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Sommario del 03/07/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa alla Fao: fame causata da inerzia di molti ed egoismo di pochi

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“La fame e la malnutrizione” sono “la risultante di una più complessa condizione di sottosviluppo, causata dall’inerzia di molti e dall’egoismo di pochi”. Lo ha affermato il Papa nel Messaggio alla Fao, per la 40.ma conferenza dell’Agenzia Onu, in corso a Roma, letto dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. Francesco - ha annunciato il porporato - sarà in visita alla Fao il prossimo 16 ottobre. Alessandro Guarasci: 

E’ necessario aumentare gli sforzi per combattere la fame. Nel mondo, infatti, 800 milioni di persone non hanno di che mangiare. Francesco afferma che “quando un Paese non è in grado di dare risposte adeguate perché non lo permette il suo grado di sviluppo, le sue condizioni di povertà, i cambiamenti climatici o le situazioni di insicurezza, è necessario che la Fao e le altre Istituzioni intergovernative siano messe in grado di intervenire specificamente per intraprendere un’adeguata azione solidale”.

Francesco mette in luce che la “fame e la malnutrizione non sono soltanto fenomeni naturali o strutturali di determinate aree geografiche, ma sono piuttosto la risultante di una più complessa condizione di sottosviluppo, causata dall’inerzia di molti e dall’egoismo di pochi”. Ed ancora: “Le guerre, il terrorismo, gli spostamenti forzati di persone che sempre più impediscono o almeno condizionano fortemente le stesse attività di cooperazione, non sono delle fatalità, ma piuttosto il risultato di scelte precise”.

I primi a farne le spese sono i poveri. Francesco afferma che siamo di fronte a “un meccanismo complesso che colpisce anzitutto le categorie più vulnerabili, non solo escluse dai processi produttivi, ma spesso costrette a lasciare le loro terre alla ricerca di rifugio e speranza di vita. Come pure sono determinati da decisioni assunte in piena libertà e coscienza i dati relativi agli aiuti verso i Paesi poveri, che appaiono sempre più ridotti, nonostante gli appelli che si susseguono di fronte alle situazioni di crisi sempre più distruttive che si manifestano in diverse aree del pianeta”.

Il Papa offre il suo sostegno. “Anche spinto dal desiderio di incoraggiare i Governi, vorrei unirmi con un contributo al programma della FAO per fornire sementi alle famiglie rurali che vivono in aree dove si sono sommati gli effetti dei conflitti e della siccità - dice Francesco - Questo gesto si aggiunge al lavoro che la Chiesa porta avanti secondo la propria vocazione di stare al fianco dei poveri della terra e di accompagnare il fattivo impegno di tutti in loro favore.

Un impegno richiesto anche dall’Agenda per lo sviluppo 2030. “Solo uno sforzo di autentica solidarietà - sottolinea Francesco - sarà capace di eliminare il numero delle persone malnutrite e prive del necessario per vivere. È una sfida molto grande per la FAO e per tutte le Istituzioni della Comunità internazionale. Una sfida in cui anche la Chiesa si sente impegnata in prima fila”.

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Francesco al fianco dei genitori di Charlie: curarlo sino alla fine

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Papa Francesco interviene nuovamente sulla vicenda del piccolo Charlie, il bimbo di 10 mesi ricoverato in un ospedale a Londra per una malattia rara che i medici definiscono incurabile e vogliono staccare la spina per non cadere in ciò che dicono sia accanimento terapeutico. Il suo appello è che si ascolti la volontà dei genitori. Il servizio di Sergio Centofanti

“Affetto e commozione”: con questi sentimenti Francesco sta seguendo la vicenda del piccolo Charlie Gard. Lo ha riferito ieri sera il direttore della Sala Stampa vaticana, Greg Burke. Il Papa “esprime la propria vicinanza ai suoi genitori” e prega per loro “auspicando che non si trascuri il loro desiderio di accompagnare e curare sino alla fine il proprio bimbo". Dunque, pur nella complessità del caso, con i medici che non vogliono infliggere nuove sofferenze al bambino, il cui cervello è stato intaccato e non risponde più agli stimoli, il Papa si mette al fianco dei genitori che chiedono di continuare a provare a curare il loro figlio. Grazie ad una colletta internazionale vorrebbero portarlo negli Stati Uniti per sottoporlo a una terapia sperimentale, ma l’ospedale ha deciso di staccare il respiratore artificiale che lo tiene in vita. Una decisione rinviata solo di qualche tempo.

Il Papa si era già riferito alla vicenda venerdì scorso, scrivendo in un tweet che "difendere la vita umana, soprattutto quando è ferita dalla malattia, è un impegno d'amore che Dio affida ad ogni uomo".

Ieri don Carmine Arice, Direttore dell'Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei, ha detto che strutture cattoliche, come il Gemelli o il Bambino Gesù,  sarebbero ben disposte ad accogliere il piccolo. In particolare don Arice, come tanti, critica il fatto che i genitori siano espropriati della loro libertà di scelta riguardo alla sorte del figlio e che sia lo Stato a decidere al loro posto. Ora, anche il Papa chiede di ascoltare il papà e la mamma che desiderano curare Charlie sino alla fine.

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Veglie di preghiera per Charlie, i Social si mobilitano

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Continua a trovare ampio spazio sui mezzi di comunicazione tradizionali ma soprattutto nell'ambiente dei Social, la vicenda di Charlie Gard, il bambino inglese di 10 mesi affetto da Sindrome dell’encefalomiopatia mitocondriale, malattia genetica molto rara e ad oggi inguaribile. I medici del Great Ormond Street Hospital di Londra hanno concesso un po’ di tempo in più ai genitori prima di staccare le macchine che lo tengono in vita. Decisione contro la quale si sono appellati i genitori ma che è stata invece convalidata da tre Corti inglesi di diverso grado e dalla stessa Corte europea dei Diritti dell’uomo. Il servizio di Debora Donnini: 

Commozione, empatia, solidarietà sono i sentimenti che si intrecciano con analisi medico-scientifiche, bioetiche e giuridiche su questa dolorosa vicenda. A volte le opinioni sono in parte contrastanti, per la complessità della situazione ma, di fatto, la Rete sta muovendo. A testimoniarlo gli hastag #CharlieGard, #Charliesfight#pray4Charlie con il moltiplicarsi di veglie di preghiera, oltre cento solo in Italia, manifestazioni, petizioni perché Charlie possa andare negli Stati Uniti per una terapia sperimentale in una clinica, in base ad una ricerca del 2014 della Columbia University di New York che ha fatto esperimenti riusciti su topi affetti da malattie mitocondriali.

Tra gli articoli, spicca, ieri, quello di mons. Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita e attualmente confermato membro ad honorem della stessa Istituzione. Il presule parla di “accanimento tanatologico” e in 10 punti sintetizza la sua analisi: dall’inguaribilità che mai può essere confusa con l’incurabilità, per cui sono proprio persone come Charlie che hanno diritto ad essere assistite in ogni fase della malattia, ad altre considerazioni sulla terapia sperimentale. “Ci sono le cure palliative”, “non esistono malattie incurabili”, ricorda anche Antonio Spagnolo, direttore dell'Istituto di Bioetica dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, nell’intervista di Fabio Colagrande:

R. - Quello che possiamo dire è che sicuramente anticipare la morte di un bambino, di una persona in generale, non rappresenta mai una risposta ad un bisogno: se c’è dolore, se c’è sofferenza, ci sono le cure palliative, c’è tutto un modo di prendersi cura, di aiutare i genitori ad elaborare il lutto, fare in modo che la morte possa avvenire in un ambiente noto, nella casa, nella famiglia … Sembra che tutto questo sia mancato in questa vicenda in cui sembra quasi che in modo imperativo l’unica cosa da fare era anticipare la morte. Questo rappresenta un elemento molto preoccupante, che ci interroga anche in relazione a progetti di legge che nel nostro Paese vorrebbero essere attuati e che rimandano a giudici la riflessione o la risoluzione di problematiche che invece hanno bisogno di essere affrontate all’interno di una relazione tra medici e pazienti, tra medici e genitori di questo bambino.

D. - Papa Francesco ha auspicato che non si trascuri il desiderio dei genitori di Charlie di accompagnarlo e curarlo sino alla fine. Possiamo dire che forse questo desiderio non è stato rispettato finora …

R. - Da quanto ci risulta sembrerebbe così. Quindi sembra inspiegabile, per la verità, che dei medici non accettino questo, quando da tempo ormai esiste quella che  si chiama la “comfort care”, cioè le cure che i neonatologi esperti offrono ai pazienti, ai bambini che non hanno più prospettive di terapie, ma che possono essere sempre curati. Quindi bisogna distinguere bene il concetto della guarigione dal concetto del prendersi cura. Non esistono malattie incurabili; possono essere inguaribili, ma non incurabili. Quindi questo elemento che il Papa ha sottolineato dovrebbe essere l’atteggiamento più corretto nei confronti di questi bambini, così come hanno auspicato i genitori, di accompagnarlo. Per quale motivo si dovrebbero staccare quegli strumenti che in realtà possono, comunque, accompagnare il bambino con la migliore qualità di vita possibile, con l’analgesia, con il conforto della nutrizione, dell’idratazione …

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Grecia. Papa dona 50mila euro a Lesbo, colpita dal sisma

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Papa Francesco ha donato 50.000 euro in favore delle vittime del terremoto che lo scorso 12 giugno ha colpito il sud dell’isola greca di Lesbo. Ne dà notizia la nunziatura apostolica in Grecia. 

Una donazione inattesa
“La donazione inattesa, segno concreto della vicinanza e dell’affetto di Francesco verso la popolazione provata dal forte sisma di 6,3 gradi Richter, - spiega l’incaricato d’affari della nunziatura, mons. Massimo Catterin -   è avvenuta dopo che l’arcivescovo di Naxos, Tinos, Andro e Mykonos, mons. Nikólaos Printesis, amministratore apostolico della diocesi di Chios, aveva chiesto alla nunziatura di informare il Santo Padre della situazione nell’isola”.

Un gesto dal valore ecumenico. Donazione per villaggio ortodosso di Vrisa
Nello specifico i soldi saranno devoluti al villaggio ortodosso di Vrisa, letteralmente raso al suolo dopo la prima scossa e visitato a tre giorni dalla tragedia da Ieronymos II, arcivescovo ortodosso di Atene e di tutta la Grecia. A Vrisa nel terremoto di tre settimane è morta sotto le macerie una donna di 43 anni. “La donazione del Papa – commenta mons. Catterin – ha grande valore anche da un punto di vista ecumenico: a beneficiarne sarà una popolazione a maggioranza ortodossa. A Lesbo infatti i cattolici sono appena 50”.

Grande riconoscenza al Papa da Lesbo, isola che vive due emergenze
“Martedì della prossima settimana, insieme a mons. Nikolaos – conclude l’incaricato d’affari della nunziatura apostolica – visiteremo Vrisa e avremo un incontro con le autorità locali: in quella sede decideremo come impiegare concretamente i soldi donati dal Santo Padre. Verso il Papa c’è grande riconoscenza e affetto a Lesbo: lui sa che l’emergenza sisma si aggiunge alla prima emergenza legata ai profughi”.  

Ascolta il servizio di Paolo Ondarza 

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Nuovo passo ecumenico sulla Dottrina della Giustificazione

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Mercoledì prossimo, 5 luglio, a Wittenberg in Germania, città dove nacque la Riforma nel 1517, la Comunione Mondiale di Chiese Riformate aderirà ufficialmente al consenso ecumenico già raggiunto tra cattolici, luterani e metodisti sulla Dottrina della Giustificazione. Una delle questioni cruciali che avevano acceso il dissenso tra i riformatori e le autorità della Chiesa cattolica nel XVI secolo è stata risolta e questo permette di progredire verso una maggiore comunione spirituale ed ecclesiale tra protestanti e cattolici. All’evento sarà presente il segretario del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, mons. Brian Farrell. “Questo evento - afferma una nota del dicastero - sarà un’altra importante pietra miliare sul cammino verso l’unità visibile dei cristiani: non ancora la meta, ma una fase significativa del viaggio comune”. Mons. Farrel - al microfono di Philippa Hitchen - ci spiega il significato di questo evento: 

R. – Il momento della Riforma, nel Secolo XVI, un punto fondamentale di controversia fu la questione della Giustificazione, cioè come diventa effettiva nel peccatore la grazia di Cristo, la salvezza. Allora, nel dialogo ecumenico ci siamo resi conto, cattolici e luterani per primi, che abbiamo in fondo la stessa visione di questa dottrina. Questo ha permesso la firma della Dichiarazione congiunta sulla Giustificazione nel 1999; poi, nel 2006, la Chiesa metodista si è associata a questa dottrina; e adesso fa lo stesso tutta la Comunione delle Chiese riformate. Questo vuol dire praticamente che la Chiesa cattolica e tutte le Chiese storiche protestanti hanno la stessa visione teologica di come si fa reale la salvezza. E pertanto abbiamo una base comune per una grande collaborazione, non solo spirituale ma anche ecclesiale: cioè le Chiese adesso hanno una base per poter collaborare molto più intensamente.

D. – Queste Chiese della Comunione riformata vogliono dare un’enfasi particolare sulla giustizia: che cosa vuol dire esattamente?

R. – Vogliono sottolineare che quando siamo giustificati davanti a Dio per la grazia, abbiamo per questo già una responsabilità, un compito: quello di lavorare per la giustizia nel mondo, che è una conseguenza naturale della giustificazione. I riformati – le Chiese riformate – hanno questo senso di dover sottolineare, nel momento concreto in cui viviamo, l’importanza di questo impegno con la giustizia, di questo lavorare per trasformare il mondo secondo le regole del Vangelo.

D. – E quindi in termini pratici che cosa può significare questo?

R. – Può significare che a livello locale o regionale, cattolici luterani, metodisti e riformati - tutti insieme - possono lavorare insieme per la trasformazione della società, per portare aiuto all’umanità sofferente.

D. – E quindi riscoprire in qualche senso questo “tesoro nascosto”, come viene chiamato, dell’insegnamento sociale della Chiesa cattolica…

R. – Diventare tutti più coscienti del fatto che, come dice tante volte Papa Francesco, non basta credere in astratto, ma che la nostra fede ci porti a lavorare, a camminare, a cambiare il mondo.

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Oggi in Primo Piano



Venezuela: Maduro aumenta salario minimo, ma la protesta continua

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Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha annunciato un aumento del 50% del salario minimo: è il terzo rialzo in un anno. Gli economisti ritengono tuttavia che questa decisione accelererà  l'inflazione, facendo diminuire il potere d'acquisto e provocando nuova disoccupazione. Maduro ha assicurato che con la sua proposta di Assemblea Costituente per riformare la Costituzione anche lo stato dell'economia migliorerà. Ma l'annuncio non sembra destinato a fermare l'ondata di proteste degli oppositori che, dal primo aprile, scendono in strada ininterrottamente per chiedere che Maduro se ne vada. Nelle marce dei manifestanti, che si oppongono anche alla Costituente, sono già morte 90 persone. Ieri, lappello del Papa all’Angelus domenicale per la soluzione della crisi in Venezuela, ha messo ancor più il Paese latino-americano al centro dell’attenzione internazionale. Ma qual è la possibilità di avviare un dialogo, secondo l’auspicio del Papa e della Chiesa locale? Giancarlo La Vella lo ha chiesto a Maria Rosaria Stabili, docente di Storia e Istituzioni dell’America Latina all’Università Roma Tre: 

R. – L’unica possibilità reale perché si avvii una qualche soluzione sono le dimissioni di Maduro, cosa che il presidente non pensa affatto di fare. Altre strade non le vedo possibili. Alcuni pensano che forse un settore delle forze armate potrebbe sollevarsi: è un po’ difficile capire che cosa effettivamente stia succedendo all’interno delle forze armate. Al momento, buona parte delle forze armate sono ancora con Maduro; solo una minoranza forse sarebbe disponibile a intervenire. Però, la situazione è confusa. E non vedo, purtroppo, alternative.

D. – Del resto, la storia di molti Paesi latinoamericani, anche del Venezuela, non è mai passata attraverso cambiamenti realizzati con il dialogo, ma più con rivolgimenti di piazza o armati …

R. – Purtroppo, sì. Tutti auspicavamo che quella stagione fosse conclusa, dagli anni Novanta in poi: sembrava affermarsi una modalità di consolidamento democratico; e vediamo che questa speranza di una realtà stabilizzata sta un po’ venendo meno. Il caso del Venezuela è un caso estremo. Molti di noi non immaginavano che potesse arrivare a un’emergenza umanitaria. D’altra parte, la versione ufficiale che il governo porta avanti è che è tutta una cospirazione, che i mezzi di comunicazione internazionali cospirano, che non c’è un’emergenza umanitaria e non sentono ragioni.

D. – Potrebbe avere buon gioco l’inserimento nella crisi dell’Organizzazione degli Stati Americani o addirittura dell’Onu?

R. – L’Organizzazione degli Stati Americani ha provato moltissimo a mediare e sono stati messi alla porta dal governo. Ci riproveranno, da quello che mi risulta, ci sono state anche pressioni da parte dell’Onu, ma senza risultato, perché purtroppo né l’Organizzazione degli Stati Americani né le Nazioni Unite hanno potere d’intervento. Più che sollecitare, fare pressioni, porsi come mediatori alla ricerca della pace, non possono fare. E’ una situazione che addolora tutti, moltissimo, e che produce un senso di impotenza.

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Il nunzio in Iraq: i cristiani stanno ritornando nei loro villaggi

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È sul sangue dei martiri che “si fonda la Chiesa”. Le parole di Papa Francesco all’udienza generale di mercoledì scorso hanno trovato nuovo vigore nella consacrazione, in Iraq, della chiesa dedicata ai Santi Pietro e Paolo: una struttura inaugurata ad Ankawa di Erbil, nel giorno dedicato proprio ai due martiri, il 29 giugno scorso, dal patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Raphaël I Sako. In un momento in cui il Paese vive l’avanzata dell’esercito a Mosul, riconquistata quasi interamente al sedicente Stato Islamico, nonostante alcune sacche di resistenza, alla cerimonia di dedicazione ha partecipato il nunzio apostolico in Iraq e Giordania, l’arcivescovo Alberto Ortega Martin, raggiunto telefonicamente a Baghdad da Giada Aquilino

R. – Penso che sia una buona notizia: in un Paese dove siamo abituati a tante cattive notizie, il fatto che sia stata inaugurata e dedicata una nuova chiesa è un grande segno di speranza. Tra l’altro è una chiesa che si trova ad Ankawa, un quartiere cristiano della città di Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno. Si tratta di una zona dove ci sono parecchi cristiani e in particolare parecchi rifugiati cristiani: tanti di loro potranno partecipare così più facilmente alle attività della chiesa, alla Messa e alle celebrazioni. Tra l’altro è un edificio molto grande e bello. È un bel gesto che dimostra che la Chiesa continua, ha vitalità e che si va avanti nonostante le difficoltà.

D. – Si tratta di una chiesa dedicata a due Santi che Papa Francesco ha definito “colonne” della Chiesa, due Santi martiri, Pietro e Paolo. Che significato ha in Iraq oggi?

R. – In Iraq, il tema del martirio si vive molto da vicino perché qui i cristiani, anche per loro diretta esperienza, sanno cosa siano le difficoltà e persino le persecuzioni. E tanti di loro hanno perso tutto per mantenere la fede. Avere allora come patroni della chiesa questi grandi Santi, che hanno dato la vita per il Signore, senz’altro per i cristiani d’Iraq è un grande incoraggiamento ed esempio.

D. – C’è stato un momento il giorno della celebrazione in cui ha potuto cogliere qualche parola di speranza, ma pure ancora qualche segno di paura da parte della popolazione?

R. – Quando hanno finito la celebrazione della dedicazione dell’altare, la benedizione, l’unzione del tabernacolo, la gente abitualmente comincia ad urlare di gioia e ad applaudire. È stato un momento molto bello, di grande gioia. Anche nelle parole all’omelia di Sua Beatitudine, il Patriarca Sako, si è notato che c’è una certa preoccupazione: ha esortato ed incoraggiato tutti i cristiani a rimanere nel proprio Paese, ad essere una presenza buona in Iraq nonostante le difficoltà. Si vede quindi che è una situazione difficile, ma proprio l’inaugurazione di una nuova chiesa dà tanta speranza alla gente: la invita a vivere la fede che è ciò che può permetterle di continuare la propria missione.

D. – Come continuare questa missione da cristiani in un momento in cui l’esercito iracheno sta riconquistando Mosul, ma ci sono ancora sacche di resistenza da parte di Daesh?

R. – Dovrà finire questa battaglia e si dovrà vedere un po’ cosa succede a livello militare, sperando che anche la situazione politica e sociale sia un po’ più stabile. Ma l’importante è che i cristiani, come diceva anche il Patriarca, rimangano attaccati alla fede e alla loro terra, alla loro patria, continuando nonostante le difficoltà a fornire quel contributo prezioso che possono dare per il bene non soltanto della Chiesa ma anche dell’intera società. In molti vogliono rientrare nei loro villaggi che sono stati liberati: adesso si deve pensare a ricostruire.

D. – Lei ha detto che ad Erbil ci sono sfollati iracheni che hanno travato lì riparo. In questo momento che fase della guerra si vive?

R. – In alcuni posti che sono stati già liberati, dove la situazione è più tranquilla e forse le case erano meno danneggiate, molte famiglie sono rientrate. C’è un villaggio caldeo che si chiama Telleshkof, un villaggio caldeo vicino ad Alqosh, dove ci sono oltre 600 famiglie cristiane già rientrate: questo è un grande segno di speranza. In altri, si sta continuando il lavoro di ricostruzione: ci vorrà del tempo, ma io spero e auspico che si possa rientrare a poco a poco in tutti i villaggi.

D. – C’è preoccupazione per chi ancora è sfollato e per chi ancora vive la violenza in prima persona?

R.  – Sì, c’è preoccupazione nel senso che tutti vorremmo un ritorno più veloce, ma servirà ancora un po’ di pazienza. Spero che presto ci siano le condizioni per poter rientrare. Intanto però quelli che rimangono sfollati continuano a ricevere l’aiuto da parte di tutta la Chiesa per poter continuare a stare là, col desiderio di poter rientrare a casa quanto prima.

D. – C’è un’immagine che contraddistingue questo momento dell’Iraq e che le rimane negli occhi?

R. – Il giorno dopo la consacrazione della Chiesa dei Santi Pietro e Paolo, ho partecipato alle Prime Comunioni nella chiesa di San Giuseppe, sempre ad Ankawa, con l’arcivescovo di Erbil, mons. Bashar M. Warda. C’erano tanti bambini - una quarantina - che ricevevano la Prima Comunione ed è stata una celebrazione molto bella. Ho visto come hanno partecipato, come hanno seguito la Liturgia che non è facilissima, come hanno saputo le risposte e come hanno cantato, con gioia e fiducia: sono tornato con questa immagine negli occhi - di questi bambini che saranno i cristiani di domani - dicendo che, grazie a Dio, c’è tanta speranza per la Chiesa.

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Immigrazione. Cir: bene l'intesa tra Italia, Francia e Germania

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Al prevertice di Parigi, ieri, "piena intesa" tra Italia, Francia e Germania sulla questione migranti. Un documento contenente i termini dell’accordo verrà presentato giovedì in Estonia all'incontro dei ministri degli Interni dei 28 paesi Ue. Tra i punti principali, la regolamentazione delle azioni delle Ong nel Mar Mediterraneo e maggiori finanziamenti alla Libia per il controllo delle coste. Altro capitolo chiave la distribuzione dei migranti nei vari paesi europei. Intervenendo stamattina alla Fao, il premier italiano Paolo Gentiloni ha detto che “è necessario per l’Italia evitare che i flussi diventino insostenibili alimentando reazioni ostili” in un tessuto sociale “che fino a ora ha reagito in modo esemplare a questa sfida”.  Adriana Masotti ha chiesto un commento sull’intesa a Roberto Zaccaria, presidente del CIR, Consiglio italiano per i rifugiati, a partire dalle misure previste per le ONG: 

R. – E’ evidente che aver raggiunto un’intesa almeno di percorso, di metodo con la Francia e con la Germania è un elemento che non può che farci piacere. Era impossibile che ci fosse, soprattutto da parte di questi due Stati, una chiusura:bisogna vedere quali saranno le condizioni che poi passeranno nel vertice più ampio.

D. – Per quello che si può sapere in questo momento, due sarebbero le direzioni: un maggiore controllo su sbarchi, porti e quindi azioni delle Ong che stanno in mare, e dall’altra parte maggiori finanziamenti alla Libia per evitare le partenze. Vogliamo intanto commentare un po’ questa prima cosa: una regia diversa, regole diverse per le Ong, maggiore potere alla Guardia Costiera …

R. – Quando scoppiò questa vicenda con le Ong, come Consiglio italiano per i rifugiati abbiamo presentato un documento in cui si parlava di regole d’ingaggio comuni, di un coordinamento della Guardia Costiera; si parlava di trasparenza di queste organizzazioni che fossero conosciute e avessero dei modi di agire coerenti con i modi di agire dei principali soggetti statali che operano in quello scacchiere. Questo è quello che sta maturando ed è del tutto condivisibile.

D. – Però si dice anche che potrebbe essere vietato alle Ong l’ingresso in acque libiche: questo vorrebbe dire magari anche meno salvataggi …

R. – Quando noi usiamo l’espressione “salvataggi”, sulla quale ovviamente siamo tutti d’accordo in via di principio, perché ci mancherebbe altro!, bisogna capire in che momento interviene il salvataggio. Perché se il salvataggio è un’imbarcazione che è in difficoltà e sta per naufragare, in quel caso non possono esserci limiti di azione, ovviamente. Se invece si tratta di andare incontro ad un’imbarcazione malconcia che comunque naviga, lì la delicatezza di entrare in acque internazionali è maggiore. Nel primo caso si tratta di effettuare un salvataggio che è il primo valore che abbiamo di fronte a noi; nel secondo caso, si tratta di accompagnare una nave che è in condizioni, anche se molto precarie, di navigare.

D. – Questo nella speranza che si possano frenare le partenze, immagino: e qui entriamo …

R. - … questo è un discorso totalmente diverso, anche se poi naturalmente alla fine si congiunge. Frenare le partenze significa anticipare i luoghi di intervento, creare corridoi umanitari e creare o individuare vicino alle situazioni d’emergenza dei luoghi sicuri e garantiti dove queste persone possano essere assistite e possano da lì incominciare a fare le loro domande di asilo.

D. – Qui però parliamo della Libia, perché è dalla Libia che parte la maggior parte dei rifugiati …

R. – Parliamo dalla Libia: il governo italiano e l’Europa si sono già posti il problema di sostenere il processo di stabilizzazione. D’altra parte,  il Cir ha in Libia delle realtà che operano nel Sud della Libia per monitorare situazioni critiche.

D. – Lei vuol dire che anche in una situazione così instabile come quella libica, c’è spazio per fare qualcosa di più?

R. – C’è spazio, si deve operare e naturalmente si deve operare congiuntamente su diversi scacchieri, perché si deve operare come stiamo facendo con gli esponenti del governo libico più riconosciuto, ma al tempo stesso operare anche in contatto con tutte quelle realtà complesse che sono in Libia. E qui, in questo caso, contano anche i finanziamenti che si mettono in campo. E credo che su questo terreno Francia e Germania siano particolarmente sensibili, perchè ritengono che non abbia senso avere da un lato investito qualche miliardo in Turchia e investire qualche centinaio di milioni in Libia …

D. – Se l’intesa tra questi Paesi europei andrà bene, i trafficanti potranno risentirne, ovviamente in negativo?

R. – Tutte queste azioni sono azioni dirette a tagliare l’erba sotto ai piedi dei trafficanti e naturalmente non credo che siano azioni indolori. Se si creano delle condizioni per cui la domanda di ricorso a questi trafficanti diventa – o diventasse – meno consistente, meno forte è chiaro che sarebbe proprio un modo per scoraggiare – non è che io mi faccia delle illusioni facili – ma per scoraggiare, comunque tagliare l’erba sotto ai piedi ai trafficanti.

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Mons. Ballin: la crisi del Qatar mette in fuga i cristiani

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Lo scontro in atto tra il Qatar e i Paesi della regione del Golfo guidati dall’Arabia Saudita comincia ad avere ripercussioni anche sulla piccola comunità cattolica del Paese. Si  può parlare già di “crisi da un punto di vista sociale”, che ha portato “molte persone a perdere il lavoro” e a “generare una situazione di incertezza per l’avvenire”. A riferirlo all’agenzia AsiaNews è mons. Camillo Ballin, vicario apostolico dell’Arabia Settentrionale (Kuwait, Arabia Saudita, Qatar e Bahrain).

Partite già diverse famiglie 
Al momento, afferma il presule italiano, “non si hanno ancora numeri precisi” sul numero di cristiani che hanno lasciato il Paese. Tuttavia, è certo che “diverse famiglie sono già partite” e dagli oltre 300mila fedeli del periodo pre-crisi “il numero potrebbe presto calare”.  Il timore, spiega, è che se “vi saranno altre sanzioni o i Paesi che hanno congelato i conti decidono di ritirare i loro soldi dai depositi bancari, sarà una tragedia per il Qatar. E i primi a rimetterci saranno anche in questo caso i più poveri”.

La conseguenza è l’impoverimento della comunità cristiana locale
“Quelli che partono - aggiunge mons. Ballin - non lo fanno certo con l’intenzione di tornare nel futuro, almeno nell’immediato. Noi cerchiamo di aiutare chi resta, anche se non è facile perché i bisogni sono grandi e il clima di incertezza non aiuta. Del resto la Chiesa non si può addossare il sostentamento di migliaia di famiglie e se non c’è lavoro l’unica alternativa è partire”. Questo porta a un “impoverimento” della comunità cristiana locale, avverte mons. Ballin, ed è fonte di “grave preoccupazione. Per questo vi chiedo di pregare per noi - conclude il presule - e per la decina di preti che ogni giorno lavorano a contatto con la comunità”.

Una comunità composta in larga parte di immigrati dall’Asia
I cattolici in Qatar sono oltre 300mila (suddivisi in quattro riti: latino, maronita, assiro-malabarese, assiro-malankarese) su una popolazione complessiva di circa 2,6 milioni di abitanti (dati di inizio 2017), anche se il numero varia a seconda della stagione e dell’offerta di lavoro. Solo 313mila circa sono cittadini del Qatar e i restanti sono lavoratori migranti (quasi 2,3 milioni). I non arabi costituiscono la grande maggioranza della popolazione del Qatar e la comunità più importante è quella proveniente dall’India (650mila). A seguire vi sono i nepalesi (350mila), i bangladeshi (280mila), filippini (200mila) egiziani (145mila), immigrati dello Sri Lanka (145mila) e pakistani (125mila). (L.Z.)

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Turchia: a Efeso sarà aperta una parrocchia cattolica

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A Selçuk (Turchia), nelle vicinanze dell’antica Efeso, dove si trova la tomba dell’apostolo San Giovanni, si sta formando una consistente comunità cristiana che ha bisogno di una sala per la preghiera. Essendo proibito costruire nuovi luoghi di culto, in base a una legge in vigore dal 1923, anni fa i cattolici accettarono il suggerimento dei protestanti di aprire una sala di preghiera, permessa dalla legge, in cui si radunano ortodossi, siriani, armeni, caldei, protestanti, in gran parte commercianti che hanno lasciato il Gran Bazar di Istanbul per il crollo del turismo e si sono stabiliti a Selçuk, una cittadina a pochi chilometri da Kuşadasi, dove approdano  tutte le navi da crociera che sbarcano migliaia di turisti interessati alle rovine dell’antico capoluogo dell’Asia Minore  e  alla casa della Madonna posta sulla “Collina dell’usignolo”.

La sala fu aperta con tutti i permessi richiesti e oggi è la  “piccola chiesa” di  un Dernek (Associazione), chiamata “Emmaus chiesa cattolica” di Selçuk. Alla sua custodia e alle liturgie pensano i cappuccini della vicina Casa della Madonna - due polacchi e un rumeno - coadiuvati da due famiglie turche cristiane, tornate in patria dopo un soggiorno in Italia. La sala si trova in un luogo unico al mondo: di fronte alla Basilica in cui si venera la tomba dell’apostolo San Giovanni, fatta costruire dall’imperatore Giustiniano nel 548. La sala diventerà presto la nona parrocchia dall’arcidiocesi di Smirne, retta dal domenicano mons. Lorenzo Piretto, di cui farà parte anche un bel numero di famiglie e di giovani provenienti dal Rinnovamento nello Spirito. (A cura di P. Egidio Picucci)

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Roma: presentata la mezza maratona multi-religiosa

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Si è tenuta oggi in Campidoglio, a Roma, la conferenza stampa per presentare la prima edizione della “Rome Half Marathon Via Pacis”, la mezza maratona multi-religiosa che si svolgerà domenica 17 settembre, iniziativa promossa congiuntamente da Roma Capitale e dal Pontificio Consiglio della Cultura. La manifestazione sportiva ha lo scopo di favorire la conoscenza della ricchezza culturale e religiosa della città, incoraggiando l’integrazione tra le diverse comunità religiose presenti sul territorio e collegando i luoghi di culto emblematici della Capitale. Patricia Ynestroza ne ha parlato con mons. Melchor Sanchez de Toca y Alameda, sottosegretario del Pontificio Consiglio della Cultura: 

R. - Il 17 settembre, per la prima volta a Roma, si correrà la Via Pacis, una mezza maratona - 21 km – che non è semplicemente una prova sportiva, bensì un evento culturale di grandissima portata per la città. I corridori collegheranno, attraverso la corsa, i diversi luoghi sacri della città, che sono espressione della diversità e la ricchezza delle anime della città di Roma: San Pietro, ma anche la Sinagoga, la Moschea di Roma, la chiesa protestante, quella valdese, ortodossa e naturalmente i grandi monumenti della storia e dell’arte della Capitale. La Via Pacis è, ovviamente, aperta a tutti: parteciperanno, soprattutto – e ci auguriamo in grande numero – gli amatori, i podisti, atleti amatoriali, che prendono spesso parte alle corse popolari, che sono tantissimi qui a Roma. C’è una parte non competitiva aperta a tutti: alle famiglie, agli anziani, ai bambini, a chi non se la sente di correre 21 km che richiedono una preparazione particolare. Saranno presenti atleti di fama internazionale, ma vogliamo soprattutto che sia la città intera di Roma a partecipare a questa iniziativa. Infine, alcuni punti di ristoro saranno gestiti da comunità religiose: la moschea così come la Sinagoga si occuperanno deii punti di ristoro, di spugnaggio lungo il percorso della mezza maratona.

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Da domani, 4 luglio, cambia la nostra Newsletter

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 184

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