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Sommario del 03/05/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa Francesco: Egitto è segno di speranza per la storia e per l'oggi

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L’Egitto è un segno di speranza sia per la storia passata sia per l’oggi. Così Papa Francesco nella catechesi all’udienza generale, stamani in Piazza San Pietro. Francesco ripercorre, tappa dopo tappa, il suo viaggio apostolico di venerdì e sabato scorsi in Egitto, una terra che ha un compito peculiare nel cammino verso una pace stabile. Il servizio di Debora Donnini

“Un segno di pace” in una regione che soffre per confitti e terrorismo: è potuto esserlo il viaggio apostolico in Egitto grazie all’impegno straordinario delle autorità, che Francesco ringrazia, all’udienza generale, assieme a tutto il popolo egiziano per l’accoglienza calorosa.

Nella catechesi, parte dal primo evento: l’incontro con il mondo musulmano presso Al Azhar, la più antica università islamica e massima istituzione accademica dell’islam sunnita. Qui il colloquio con il Grande Imam, Al Tayeb, e poi la Conferenza Internazionale per la Pace. Un incontro contraddistinto da due dimensioni: quella del dialogo fra cristiani e musulmani e quella della pace nel mondo. E’ stato il Grande Imam a ricordare, nel suo discorso, che la pace si costruisce mediante l’educazione e un umanesimo che comprende “come parte integrante” il rapporto con Dio. La pace, prosegue il Papa nella catechesi, si costruisce anche “ripartendo dall’alleanza fra Dio e l’uomo, fondamento dell’alleanza fra tutti gli uomini” e basata “sul Decalogo scritto sulle tavole di pietra del Sinai, ma molto più profondamente nel cuore di ogni uomo di ogni tempo e luogo”. Una legge che si riassume nei comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo. Su questo fondamento si costruisce anche l’ordine sociale e civile al quale "sono chiamati a collaborare tutti i cittadini, di ogni origine, cultura e religione". “Tale visione di sana laicità – racconta il Papa – è emersa nello scambio di discorsi” con il presidente della Repubblica d’Egitto, Al Sisi:

“Il grande patrimonio storico e religioso dell’Egitto e il suo ruolo nella regione mediorientale gli conferiscono un compito peculiare nel cammino verso una pace stabile e duratura, che poggi non sul diritto della forza, ma sulla forza del diritto”.

Il Papa torna quindi con il pensiero al secondo momento cruciale della sua visita: l’incontro con Papa Tawadros, Patriarca dei copti ortodossi.  E sottolinea che è stato dato un “forte segno di comunione”:

“Abbiamo rinnovato l’impegno, anche firmando una Dichiarazione Comune, di camminare insieme e di impegnarci per non ripetere il Battesimo amministrato nelle rispettive Chiese. Insieme abbiamo pregato per i martiri dei recenti attentati che hanno colpito tragicamente quella venerabile Chiesa; e il loro sangue ha fecondato quell’incontro ecumenico, a cui ha partecipato anche il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo”.

Una fraternità testimoniata anche dall’espressione “mio caro fratello”, con cui Francesco chiama sia Bartolomeo sia Tawadros. 

Il secondo giorno del viaggio è stato dedicato, invece, ai fedeli cattolici. “Festa di fede e fraternità”, la Messa celebrata allo stadio del Cairo. Poi l’incontro con i sacerdoti, i religiosi e i seminaristi che sono tanti, rileva Francesco. In questa comunità, dice, “ho visto la bellezza della Chiesa in Egitto”, e “ho pregato per tutti i cristiani nel Medio Oriente” perché siano “sale e luce in quelle terre”. L’Egitto è stato un segno di speranza, di rifugio, di aiuto, sia nella storia di Giacobbe quando c’era la carestia, prosegue il Papa, sia poi con Gesù quando la Santa Famiglia fuggì sulle rive del Nilo per scampare alla violenza di Erode:

“Per questo, raccontarvi questo viaggio significa percorrere il cammino della speranza: per noi l’Egitto è quel segno di speranza sia per la storia sia per l’oggi, di questa fraternità che ho voluto raccontarvi”.  

L’auspicio, quindi, è che la Santa Famiglia di Nazareth guidi il popolo egiziano sulla via della “prosperità, della fraternità e della pace”.

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Papa: invochiamo Maria con la preghiera semplice ed efficace del Rosario

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Al termine dell’udienza generale il Papa, salutando i giovani, gli ammalati e gli sposi novelli, ha invitato a invocare, in modo particolare in questo mese di maggio, “la celeste intercessione di Maria, la Madre di Gesù”. Ascoltiamo le parole del Pontefice nel servizio di Elvira Ragosta

“Cari giovani, imparate a pregarla con la preghiera semplice ed efficace del Rosario; cari ammalati, la Madonna sia il vostro sostegno nella prova del dolore; cari sposi novelli, imitate il suo amore per Dio e per i fratelli!”.

E’ una preghiera, quella del Rosario, che Papa Francesco ha più volte raccomandato ai fedeli, definendola la preghiera dei semplici e dei santi. Secondo la tradizione, questa preghiera semplice e profonda è nata nel XIII secolo in ambiente domenicano ed è poi sempre stata caldeggiata dai Papi. Inoltre, Papa Francesco regala spesso alle persone che incontra una corona del Rosario. “La Madonna - ha detto una volta - è sempre vicina ai suoi figli e pronta a venirci in aiuto quando la preghiamo". Tantissimi i fedeli, di diverse nazionalità e di ogni età, presenti oggi in Piazza San Pietro e tanta da parte loro la devozione verso la Madonna. Ecco alcune testimonianze:

R. – La Madonna è la madre di tutti; è come avere una mamma che dall’alto ci protegge.

R. – Penso sia un punto di riferimento importante per tutti noi, nella vita di tutti i giorni …

R. – Sono legatissimo alla figura della Madonna perché rappresenta la dolcezza, l’amore materno, tutto quello che è amore puro …

R. – Nella nostra vita e nella nostra famiglia è importante perché dà il sostegno necessario nei momenti del bisogno e dà a noi la speranza e la forza di andare avanti. Quindi, la presenza di Maria rappresenta fiducia, speranza, condivisione sia delle gioie sia delle sofferenze.

R. – Per me la Madonna è importantissima: sono del Messico, e la Madonna al Messico – e credo a tutto il mondo – dà una benedizione speciale, nel mese di maggio: alle famiglie e alla donna.

R. – Questo mese di Maria è il mese più bello, perché tutti i fiori fioriscono – io sono brasiliano, vengo dal Brasile – e le chiese sono piene piene, perché la gente è contenta perché la Madonna è quella che ci porta a Cristo Gesù, al Risorto. Dopo la Pasqua, abbiamo questo mese per cantare le lodi a Dio Padre per Cristo Gesù, con Maria, la mediatrice: è lei che ci aiuta a capire tante cose, a vivere nell’essenziale, l’“essere Maria”. Non è una devozione solamente: gli esercizi spirituali mariani del mese di maggio sono un’esperienza di vita con Maria, è camminare insieme con lei, è godere – dopo tutto quello che Lei ha sofferto nella sua vita – la gloria della resurrezione.

D. – Quanto le è di conforto, la preghiera del Rosario?

R. – Molto! Specialmente nei momenti di difficoltà, ci aiuta moltissimo ad affrontare i problemi della vita. Quindi, moltissimo.

R. – Io ogni giorno prego la Madonna.

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Tweet del Papa: siamo miti e umili, attenti ai poveri

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In un tweet odierno il Papa lancia questa esortazione: "Il nostro atteggiamento sia mite e umile, attento alla cura dei poveri".

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Al via la prima plenaria della Segreteria per la Comunicazione

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Al via oggi la prima plenaria della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede. Il 4 maggio è in programma l’udienza con il Santo Padre. La Segreteria per la Comunicazione è stata istituita da Papa Francesco con Lettera Apostolica del 27 giugno 2015, in forma di Motu Proprio, “L'attuale contesto comunicativo”. Al nuovo Dicastero della Curia Romana è affidato il compito di ristrutturare complessivamente, attraverso un processo di riorganizzazione e di accorpamento, «tutte le realtà che, in diversi modi, fino ad oggi, si sono occupate della comunicazione», al fine di «rispondere sempre meglio alle esigenze della missione della Chiesa». In tal modo si intende ripensare il sistema comunicativo della Santa Sede. Con tale ristrutturazione la Sede Apostolica potrà così avvalersi del Dicastero come referente unitario della comunicazione, sempre più complessa e interdipendente nell'attuale scenario mediatico.

Le realtà coinvolte in tale processo sono: Centro Televisivo Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, L'Osservatore Romano, Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, Radio Vaticana, Sala Stampa della Santa Sede, Servizio Fotografico, Servizio Internet Vaticano e Tipografia Vaticana.

Partecipano alla plenaria, il Prefetto della Segreteria per la Comunicazione, mons. Dario Edoardo Viganò, e il segretario, mons. Lucio Adrian Ruiz, oltre agli altri superiori del Dicastero.

I membri della Segreteria per la Comunicazione sono i Cardinali: Béchara Boutros Raï, Patriarca di Antiochia dei Maroniti (Libano); John Njue, Arcivescovo di Nairobi (Kenya); Chibly Langlois, Vescovo di Les Cayes (Haiti); Charles Maung Bo, Arcivescovo di Yangon (Myanmar); Leonardo Sandri, Prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali; Beniamino Stella, Prefetto della Congregazione per il Clero, nonché i monsignori: Diarmuid Martin, Arcivescovo di Dublin (Irlanda); Gintaras Grušas, Arcivescovo di Vilnius (Lituania); Marcello Semeraro, Vescovo di Albano (Italia); Stanislas Lalanne, Vescovo di Pontoise (Francia); Pierre Nguyên Văn Kham, Vescovo di My Tho (Vietnam); Ginés Ramón García Beltrán, Vescovo di Guadix (Spagna); Nuno Brás da Silva Martins, Vescovo tit. Elvas, Ausiliare di Lisboa (Portogallo).

Membri del Dicastero sono anche tre laici: Dott.ssa Kim Daniels, Consulente della Conferenza Episcopale degli Stati Uniti d'America per la Commissione ad hoc sulla libertà religiosa; Dott. Markus Schächter, Professore di etica nei mass media e nella società presso la Facoltà di Filosofia S.I. di München (Germania); Dott.ssa Leticia Soberón Mainero, psicologa ed esperta di comunicazione, già Consultore del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali (Messico e Spagna).

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Santa Sede preoccupata per la situazione nella penisola coreana

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"La Santa Sede vede con preoccupazione la situazione nella penisola coreana e sostiene ogni sforzo della comunità internazionale per rilanciare i negoziati per la denuclearizzazione e la pace". E’ quanto ha affermato mons. Janusz Urbańczyk, capo delegazione della Santa Sede al primo Comitato preparatorio (in corso a Vienna dal 2 al 12 maggio) della Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare. Le armi nucleari - ha sottolineato - generano “un falso senso di sicurezza”. Il presule ha ricordato, in particolare, che quando la Santa Sede ha aderito nel 1971 al Trattato ha voluto contribuire agli sforzi tesi a promuovere “la sicurezza, la fiducia reciproca e la pacifica cooperazione nelle relazioni tra i popoli”. Anche ora la presenza della Santa Sede al Comitato preparatorio - ha osservato mons. Urbańczyk - è mossa dal desiderio di “lavorare per un mondo libero da armi nucleari”.

Sforzi della comunità internazionale non sufficienti
Ma gli sforzi della comunità internazionale di utilizzare il Trattato per rendere il mondo più sicuro - ha sottolineato - finora non sono stati sufficienti. La Santa Sede - aggiunge il presule - esorta gli Stati a compiere progressi concreti e concordati per conseguire “l’obiettivo finale dell’abolizione delle armi nucleari”. Ed è pronta ad impegnarsi, in modo costruttivo, in questo processo. La pace deve essere riconosciuta come una “virtù attiva”, che richiede lo sforzo di ogni individuo e della società nel suo complesso.

Serve un’etica di fraternità fondata sul rispetto e sul dialogo
“Un’etica di fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli - come si legge nel messaggio di Papa Francesco in occasione dell’ultima Giornata mondiale della pace - non può basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero”. In quel messaggio – ha ricordato mons. Urbańczyk – il Pontefice aveva anche lanciato un appello “in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle armi nucleari”. “La deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca assicurata - aggiungeva il Papa - non possono fondare questo tipo di etica”. Infine, sottolineando che la Santa Sede sostiene sforzi e negoziati finalizzati alla creazione di uno strumento giuridicamente vincolante per vietare le armi nucleari, ha esortato le autorità politiche non solo a garantire la sicurezza ai propri cittadini ma a lavorare attivamente per la crescita globale della pace, di cui l’umanità ha molto bisogno. (A cura di Amedeo Lomonaco)

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Oggi in Primo Piano



Putin e Trump a colloquio su Siria e Corea del Nord

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Contatti ad alto livello in corso sulle crisi del mondo. Dopo il recente colloquio telefonico, il presidente americano Trump e quello russo Putin potrebbero avere a luglio il primo faccia a faccia in occasione del G20. Intanto il capo della Casa Bianca ha ricevuto il presidente palestinese Abu Mazen, mentre Putin ha incontrato il cancelliere tedesco Angela Merkel. Sulle motivazioni di questi contatti, Giancarlo La Vella ha intervistato Germano Dottori, docente di Studi Strategici alla Luiss “Guido Carli” di Roma: 

R. - Il presidente americano intende promuovere un’azione di stabilizzazione a vasto raggio e non proseguire, certamente, sulla strada che ha portato negli scorsi anni all’accentuazione dell’instabilità. Questo perché soltanto un mondo più stabile può consentire all’America di ripiegare su se stessa, di concentrarsi sulla soluzione dei propri problemi interni e, soprattutto, sul rilancio delle proprie capacità manifatturiere, che è un po’ l’obiettivo a cui Trump ha legato non poche delle sue fortune elettorali. I problemi che sono insorti con Putin nel passato recente sono stati in larga misura determinati dalla necessità di Trump di proteggersi rispetto all’accusa di essere un presidente eccessivamente filorusso in un Paese che, evidentemente, fatica ancora a digerire alcuni riflessi della lunga eredità della Guerra Fredda.

D. - Questo dialogo potrebbe diventare a tre con l’inserimento anche della Cina?

R. - Ritengo che al momento Trump privilegi soprattutto i contatti bilaterali a seconda della crisi o del teatro regionali di riferimento. È evidente che nel caso della Corea del Nord l’interlocutore principale di Trump è proprio la Cina, mentre in Medio Oriente è chiaro che la Russia è un interlocutore privilegiato degli Stati Uniti. Vedo meno forte un ruolo della Russia invece nel teatro nordcoreano.

D. - Questi colloqui fanno pensare al tentativo di porre fine definitivamente alla crisi più grave, che è quella siriana?

R. - Sicuramente c’è l’intenzione di lavorare insieme per rendere più vicina la soluzione del problema siriano. Penso che comunque la soluzione sia ancora abbastanza lontana, perché non ci sono realtà sul terreno che la permettono. Per fare la pace in Siria bisogna che le varie componenti, che si sono affrontate in questi anni, stabiliscano delle proprie aree di controllo principale, per poi dar vita, su queste basi, ad una specie di confederazione, un po’ come è accaduto a suo tempo negli Anni ’90 in Bosnia Erzegovina. Gli accordi di Dayton hanno consentito di porre fine a una strage di straordinaria violenza. Quindi anche quella potrebbe essere una soluzione che va preparata. Ovviamente occorre anche venga sconfitto lo Stato Islamico. Comunque è importante che gli Stati Uniti e la Russia collaborino su questo dossier, perché altrimenti non si va molto lontani. Ma credo che, di fatto, non abbiano mai smesso di dialogare e comunque di fare delle cose insieme, anche al riparo da sguardi indiscreti.

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Legislative in Algeria: si prevede scarsa affluenza alle urne

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Sono 23 milioni gli elettori chiamati alle urne questo giovedì in Algeria per il rinnovo dei 462 seggi del Parlamento. Il servizio di Giada Aquilino

Dodicimila candidati per 462 seggi in Parlamento. E' lo scenario delle legislative in Algeria, dove a correre per questa tornata elettorale - di fatto già iniziata sabato scorso per i residenti all’estero, in particolare in Francia - sono 57 partiti: i sondaggi danno favorito lo schieramento di governo, il Fronte di liberazione nazionale (Fln), come spiega Liliana Mosca, docente di Storia e istituzioni dell’Africa all’università Federico II di Napoli:

“E’ favorito in questo quadro principalmente perché è il partito al governo, insieme al Rassemblement national démocratique. Inoltre perché in realtà la maggior parte degli algerini si disinteressa di queste elezioni legislative: direi anzi che forse, per via dell’alto numero di franco-algerini presenti a Parigi e non solo, la popolazione è più interessata alle elezioni in Francia e a capire se il vincitore sarà Macron, che sembra più interessato a dare uno sguardo alle problematiche di lungo corso”.

La consultazione elettorale, per la quale una delle grandi incognite sarà l'affluenza alle urne, si configura come una prova generale delle presidenziali che si terranno nel 2019, per scegliere il successore di Abdelaziz Bouteflika, al potere dal 1999 e costretto su una sedia rotelle dal 2013. Ancora Liliana Mosca:

“In realtà, il popolo algerino è fortemente disinteressato al voto per più ragioni: perché con l’approvazione della Costituzione l’anno scorso, nel 2016, nulla è cambiato. E’ stato dato un nuovo mandato a un presidente che oramai non è più in grado di guidare il Paese: Bouteflika è gravemente ammalato. Poi c’è stata anche la questione delle donne che si sono candidate, ma alcuni partiti hanno praticamente oscurato il volto delle donne sui manifesti elettorali, come l’Ennahda e altri partiti filo-islamisti: c’è stata una presa di posizione e quindi questo gesto è stato fortemente condannato. Inoltre ancora una volta quelli che siederanno nel Parlamento non verranno eletti dal popolo: saranno soltanto designati. Quindi, cambia poco per la stragrande maggioranza degli elettori. Cioè, queste sono le grandi elezioni che si svolgono nei tanti Paesi chiamiamolo del Sud del mondo, che servono più per la comunità internazionale che per il Paese. Di fatto governa ancora il vecchio establishment che non è caduto ai tempi della primavera araba in Algeria e che ha continuato a dirigere il Paese: tutto un reticolo di interessi che gira intorno alla famiglia di Bouteflika. Questo voto è dunque una prova di consenso a chi è al potere, per vedere come poi sarà gestita la successione”.

Dopo anni di un sanguinoso conflitto interno per le azioni del Gia, il gruppo terrorista di matrice islamica nato nei primi anni Novanta, l’Algeria appare oggi come un Paese dalla fragile economia, con 40 milioni di abitanti, di cui la metà under 30, e con un giovane su tre disoccupato. Liliana Mosca spiega il perché:

“E’ un Paese dalle grandi speranze, che però non riesce a concretizzare. Poi, purtroppo, l’Algeria ricava ancora il proprio Prodotto interno lordo dalle risorse energetiche, quindi il tessuto industriale è stato poco diversificato negli anni. Se il prezzo delle risorse energetiche cala - come succede di questi tempi, con il prezzo del barile sceso, per via di una sovrapproduzione, come quella degli Stati Uniti che stanno producendo parecchio petrolio - è chiaro che questi Paesi africani, che traggono le loro risorse finanziarie dalle risorse naturali, hanno grossissima difficoltà”.

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Svolta in Libia dopo l'accordo tra Al Serraj e Haftar

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Svolta in Libia dove il premier Al Sarraj e il generale Khalifa Haftar hanno raggiunto un accordo per mettere fine alla crisi nel Paese, che prevede nuove elezioni entro marzo 2018 e lo scioglimento di tutte le milizie irregolari. Secondo i media arabi i due leader si sarebbero anche accordati per porre le forze armate sotto il controllo di un nuovo consiglio presidenziale. Cecilia Seppia

L’incontro ad Abu Dhabi ha portato frutti migliori di quelli sperati e dopo tre ore di faccia a faccia il premier libico dell’esecutivo di unità nazionale, sostenuto dall’Onu, Fayez Al Sarraj, e il suo rivale, il generale Khalifa Haftar uomo forte della Cirenaica, hanno trasformato il braccio di ferro in una stretta di mano che si spera servirà a mettere fine alla crisi nel Paese. Ma cosa c’è dietro questa intesa che inizialmente sembrava essere un’invenzione dei media arabi? Arturo Varvelli, analista dell’Ispi, esperto dell’area.

"Sì, pur nelle incertezze che abbiamo ancora sui dettagli dell’accordo, pare che questa intesa sia stata perlomeno raggiunta verbalmente e sarà poi ratificata a metà maggio. È frutto di due tipologie di pressioni: da una parte, le pressioni che il generale Haftar ha subito in questi mesi da parte dell’Egitto, degli emiratini stessi e della Russia soprattutto; pressioni che andavano nella direzioni di incontrare al-Sarraj. Secondo punto: l’appoggio che al-Sarraj aveva da parte della comunità internazionale, e occidentale in particolare, è andato via via con il tempo sempre più disgregandosi, sciogliendosi; e l’ultimo tassello del puzzle che è venuto meno è naturalmente il mancato supporto dell’amministrazione Trump, minimamente paragonabile a quella che al-Sarraj aveva ricevuto dalla precedente amministrazione Obama”.

Elezioni entro marzo 2018, scioglimento delle milizie locali e comando condiviso delle forze armate, oltre alla formazione di un organismo che affiancherebbe, fino a sostituirlo, l'attuale Consiglio presidenziale di Tripoli e che sarebbe formato da un particolare triumvirato: Al Sarraj, Khalifa Haftar e il presidente del Parlamento di Tobruk, Aghila Saleh. In pratica un presidente e due vice, invece dei 9 membri dell’attuale governo. Un cambiamento radicale, gravato però da tanti punti interrogativi. Ancora Varvelli:

“I punti controversi di quest'intesa sono moltissimi, ma la nota più dolente di tutte è il fatto che l’autorità civile, l’autorità politica, sarà con molta probabilità sottomessa a una autorità militare o comunque vi sarà una prevalenza dell’autorità militare su quella civile. Questo pone la Libia verso sempre più il modello egiziano di al-Sisi e sempre più lontano invece da una democrazia un po’ più radicata sul modello tunisino”.

Di svolta significativa parlano gli Emirati Arabi, plauso anche dall’Egitto, mentre la comunità internazionale occidentale mostra un cauto ottimismo. Secondo molti analisti infatti, l’accordo potrebbe essere una mossa di Haftar che starebbe adottando una nuova strategia accettando di giocare per qualche mese secondo le regole dell’Onu, per avere in cambio la garanzia di elezioni presidenziali all’inizio del prossimo anno. Elezioni che come fu nel 2014, potrebbero però innescare nuove violenze. Sentiamo Varvelli:

“Il nuovo sistema già mette il Paese nelle mani di Haftar. Quindi, a questo punto, non è più Haftar che deve essere osservato, ma il campo dei suoi oppositori. Bisognerà vedere in realtà se Sarraj sarà in grado di far rispettare l’accordo da parte di alcuni miliziani molto importanti, soprattutto nella Tripolitania, che lo hanno appoggiato; oppure se questi ultimi in qualche maniera si sentiranno traditi da questo accordo. È vero, ad esempio, che le forze misuratine si sentono delle forze – come dire – molto stanche: hanno combattuto contro lo Stato Islamico; fronteggiano rivali e complicanze in Tripolitania ormai da lungo tempo; quindi c’è una sorta di assuefazione e anche forse di accettazione del ruolo di Haftar che prima non c’era. Ma ci sono altri fronti che si potrebbero surriscaldare, soprattutto appunto in Tripolitania; e potrebbe tornare in auge un revival islamista. In pratica bisognerà vedere come questo accordo verrà in qualche maniera tollerato: è molto facile, sulla carta, parlare di scioglimento delle milizie, ma poi bisognerà naturalmente vedere quali incentivi avranno questi miliziani a sciogliersi. In realtà, la Libia avrebbe bisogno di una fase costituente più ampia, nella quale molti degli attori, sociali, locali, le municipalità, i gruppi partitici e anche in parte i miliziani che accettano di partecipare a un gioco democratico, vengono coinvolti dal basso. Questo tentativo è stato fatto un po’ con l’accordo di Skhirat di due anni fa, ma in realtà è parzialmente fallito. Però ci sarebbe bisogno di fare nation building. Questo ancora però non si intravede in Libia”.

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Venezuela: sale protesta dopo convocazione Assemblea costituente

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Non si placano le proteste in Venezuela, anzi rifoncolano, dopo l’annuncio - il primo maggio - del presidente Maduro di convocare un’Assemblea costituente. Una proposta - ha commentato la ministra argentina degli Esteri Malcorra – che getta “benzina sul fuoco, date le circostanze”. Cosi pure il ministro degli Esteri cileno Munoz, parla di un “fattore di tensione”, che aggrava e complica  una situazione già di per sé difficile”.

Intanto si allunga la lista dei morti – almeno trenta ormai dal 4 aprile  - nelle manifestazioni popolari di opposizione, anche violenta, al governo, indette in varie città, per contrastare la decisione del presidente di redigere una nuova Carta costituzionale: altre tre le vittime ieri nello Stato centrale di Carabobo, negli scontri con le Forze dell’Ordine. Intanto il ministro degli Interni di Caracas, Reverol, ha sospeso per 180 giorni il porto d’armi legale “per garantire - ha detto - la sicurezza, la pace e l’ordine interno”. La maggior parte delle vittime sono infatti rimaste uccise da spari di arma da fuoco a margine delle proteste di piazza. Governo e opposizioni si sono accusati a vicenda di usare gruppi armati o franco tiratori per sparare contro gli avversari politici. (A cura di Roberta Gisotti)

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Argentina, i vescovi ricordano il dramma della dittatura

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Con varie riflessioni sugli eventi legati alla dittatura militare in Argentina e con le testimonianze di alcune persone che hanno sofferto le conseguenze di quel periodo si è aperta ieri, nella città di Pilar, la 113.ma Assemblea plenaria della Conferenza episcopale argentina. All’inizio della riunione, alla quale partecipano 103 vescovi, è stata approvata una lettera di saluto rivolta a Papa Francesco. E’ stato poi deciso di inviare un messaggio di solidarietà ai presuli venezuelani per la drammatica situazione che sta vivendo il Venezuela. Al centro dei lavori, anche la proposta di varie celebrazioni, nel 2020, in occasione del 500.mo anniversario della prima Messa in terra argentina.
 
La violenza ha indebolito la nazione argentina
La messa di apertura dell'assemblea, che si concluderà il prossimo 6 maggio, è stata presieduta da mons. José María Arancedo, arcivescovo di Santa Fe de la Vera Cruz e presidente della Conferenza episcopale argentina. “Ci siamo abituati - ha detto il presule - ad una cultura dello scontro”. “La violenza – ha aggiunto – ci ha indebolito come nazione”. L’arcivescovo ha poi ricordato alcuni passaggi dell’esortazione apostolica di Papa Francesco “Evangelii gaudium”: “la nuova evangelizzazione sprona ogni battezzato ad essere strumento di pacificazione e testimonianza credibile di una vita riconciliata”.
 
Per la Chiesa promuovere la cultura dell’incontro non è una strategia
“È tempo – si legge ancora nell’Evangelii gaudium - di sapere come progettare, in una cultura che privilegi il dialogo come forma d’incontro, la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni”. Per la Chiesa – ha detto infine mons. José María Arancedo – promuovere una cultura dell'incontro e rafforzare legami sociali di amicizia, come anche privilegiare la cura per i più bisognosi, non è una strategia, ma un impegno di fede in Gesù Cristo. (A.L.)

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Cile, Chiesa: procedere nei negoziati con popolo Mapuche

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“Accettare le verità essenziali del fallimento delle trattative tra Stato e Popolo Mapuche, con l'obbligo di negoziare la pace, senza paura della diversità nazionale e dell’autonomia". E’ questa è la proposta della Commissione “Giustizia e Pace” della Conferenza Episcopale cilena, rivolta alla Commissione consultiva presidenziale per l'Araucanía. Tale proposta – ricorda l’agenzia Fides - era stata presentata già nell’ottobre 2016 al Tavolo di dialogo per l'Araucania, ma era stata scartata. Ora viene riproposta e resa pubblica in quanto ritenuta ancora attuale alla luce dei nuovi dialoghi per risolvere la vicenda storica del popolo Mapuche. 

Autonomia del popolo Mapuche è una questione aperta in Cile
Importanti eventi hanno risvegliato nell'opinione pubblica la “Questione Araucania e popolo Mapuche”. Tra questi, il censimento della popolazione nell'Araucania e la Lettera pubblica del Consiglio di tutte le terre Mapuche alla presidente del Cile. La Lettera del Consiglio di tutte le terre Mapuche sottolinea che "fare un censimento non significa attuare politiche pubbliche per il popolo Mapuche". La stampa nazionale ha sottolineato l'importanza del ruolo della Chiesa cattolica per l’incontro fra Autorità del governo e Rappresentanti Mapuche. Riguardo alla proposta della Chiesa sull'autonomia del popolo Mapuche, l'ex governatore dell'Araucania, Francisco Huenchumilla, ha affermato che "la voce della Chiesa è molto potente, perché mette l'accento su un punto molto delicato per il Paese. Si tratta di una questione controversa, ma non dobbiamo avere paura di discutere, nessuno vuole buttare via un pezzo di Paese. Noi vogliamo rafforzare l'unità pur riconoscendo la diversità".

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Rsf, rapporto 2017: anche democrazie a rischio libertà stampa

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Sono 72 i Paesi in cui la situazione della libertà di stampa è difficile; in 21 di questi, definiti ‘neri’, è addirittura “molto grave”. A dirlo è la classifica annuale stilata da Reporters sans Frontieres che accusa i grandi come Cina, Russia, India, ma non solo. Francesca Sabatinelli

Ad aprire la lista la Novergia, a chiuderla la Corea del Nord, nel mezzo altri 178 Paesi: tutti sotto la lente di ingrandimento di Reporters sans Frontieres, che definisce la classifica 2017 “segnata dalla banalizzazione degli attacchi contro i media e dal trionfo di uomini forti che hanno fatto precipitare il mondo nell’era della post-verità, della propaganda e della repressione”. Un’analisi spietata dello stato di salute dell’informazione nel mondo, che punta il dito anche contro alcuni importanti Paesi democratici, ossessionati – si legge – dalla sorveglianza e dal non rispetto delle fonti, aspetti che hanno fatto slittare nella graduatoria nazioni come Stati Uniti, Regno Unito, Cile e Nuova Zelanda.

La libertà di informazione retrocede anche in Polonia, Ungheria e Tanzania, mentre la Turchia di Recep Erdogan si distingue – si legge ancora – per essere “la più grande prigione al mondo per i professionisti dei media”. Stesso duro commento per la Russia di Putin, al 148.mo posto.

Ma anche i Paesi virtuosi non sono esenti da critiche. La Finlandia, dopo sei anni, ha ceduto il primo posto alla Norvegia a causa di pressioni politiche e conflitti di interesse. Un duro colpo per l’Unione Europea, spiega ancora il rapporto. Penultima in classifica l’Eritrea che, per la prima volta dal 2007, ha lasciato l’ultima posizione alla Corea del Nord, Paese messo in ginocchio dal terrore, dove anche il semplice ascolto di una stazione radio estera può determinare la segregazione in campo di concentramento. Agli ultimi posti anche Turkmenistan e Siria, che resta il Paese con il maggior numero di giornalisti uccisi.

La situazione peggiore dunque è nelle regioni del Nord Africa e del Medio Oriente, ma anche dell’Europa dell’Est e dell’Asia centrale. Nel continente americano il Nicaragua è scivolato di 17 posizioni per i casi di censura, di intimidazione e di arresti arbitrari a seguito della controversa rielezione di Daniel Ortega. La libertà di stampa – è l’amara conclusione di Reporters sans frontieres – non  è mai stata così minacciata.

Nella classifica annuale stilata da Reporters sans Frontieres, l’Italia guadagna 25 posizioni, ciò non rende però il Paese esente da preoccupazioni. Nel rapporto si legge che il “livello di violenze contro i reporter è molto preoccupante” e che subirebbero intimidazioni da alcuni politici, come taluni del Movimento 5 Stelle. Alessandro Galimberti, giornalista del Sole 24 Ore, è il presidente dell’Unione nazionale cronisti, che oggi a Torino ha celebrato la X Giornata delle Memoria dedicata ai giornalisti italiani uccisi da mafie e terrorismo. In apertura di cerimonia il ricordo di Carlo Casalegno, il vicedirettore de La Stampa ucciso 40 anni fa dalle Brigate Rosse. Nonostante i decenni, la situazione di intimidazione non sembra cambiata. Francesca Sabatinelli ha intervistato Galimberti: 

R. – Io trovo non solo una situazione simile, ma una situazione quasi identica nel contesto culturale e professionale di emarginazione in cui vengono spinti i giornalisti. Se le Brigate Rosse a Torino hanno colpito Carlo Casalegno, e hanno colpito anche tante altre città, e se a Palermo, in Sicilia, otto giornalisti sono morti per mano della mafia, è perché c’erano le condizioni – 40 anni fa, 30 anni fa – perché ciò avvenisse. Prima emarginare il bersaglio e poi colpirlo quando è solo. Un’emarginazione professionale dentro le redazioni, un’emarginazione sociale, un’emarginazione culturale. Dove sta la similitudine, oggi, rispetto a questi fatti del passato che partono dai primi anni Settanta e arrivano fino a metà degli anni Novanta? Nel fatto che i giornalisti tornano ad essere oggi i nemici della collettività. C’è un popolo della rete, ci sono vari partiti politici – in particolare uno – che ogni giorno bersagliano i giornalisti come portatori di menzogne e alimentatori d’odio: queste sono le condizioni in cui matura l’isolamento sociale e culturale che rende tutti i giornalisti potenzialmente degli obiettivi. Credo che si debba imparare molto dalla storia, che si debba tenere viva la memoria di questi colleghi, ed è questo il senso della Giornata dell’Unci: tenere vivo il ricordo della situazione in cui sono avvenuti questi omicidi. Ci sono troppi indici che ci dicono che stanno di nuovo maturando condizioni per rendere i giornalisti obiettivo di malintenzionati.

D. – Del resto, questo è proprio quello che ha sottolineato il presidente Mattarella nel messaggio: bisogna ribadire con determinazione la necessità di proteggere i cronisti che subiscono minacce e intimidazioni …

R. – Ti ringrazio per aver citato il messaggio del presidente della Repubblica. E' importante perché arriva dalla massima istituzione dello Stato, ma anche perché Sergio Mattarella è uno di quei parenti che oggi abbiamo avuto tra noi, parenti di vittime della mafia, a raccontare la storia di normalità del loro dolore e della disperazione e della tragedia che li hanno colpiti. Il presidente parla di necessità di tutelare i giornalisti raggiunti da minacce, per i giornalisti già esposti, ed è sicuramente una cosa che lo Stato sta facendo, le istituzioni lo stanno facendo con estremo puntiglio, e quindi rendendo impossibile la vita a questi colleghi, ma almeno conservando la loro esistenza. Io credo che oggi si debba fare un passo in più e fermare l’istigazione di odio e di falsità che avviene attraverso la rete, e che alcuni partiti e fazioni politiche utilizzano per creare un odio –  è triste da dire - un odio di categoria, un odio di classe, che una volta seminato, e viene seminato a piene mani, non è più controllabile. Di fronte a questa cosa, tutti dobbiamo avere senso di responsabilità: i politici, le istituzioni, la scuola, la società e le associazioni, e fermare quest’onda che è pericolosissima e che nessuno ancora avverte.

D. – L’Unci si allinea, quindi, a ciò che scrive sull’Itala “Reporters sans frontières”: la libertà di stampa è migliorata ma i giornalisti continuano a essere minacciati dalla criminalità organizzata e in più subiscono le intimidazioni dai politici – e qui vi riferite al Movimento Cinque Stelle – che rendono pubblica l’identità dei cosiddetti “giornalisti che infastidiscono” …

R. – I giornalisti hanno una serie di cerchi concentrici di minacce. La vecchia politica ha tentato per tanti anni di cambiare le regole sulla diffamazione a mezzo stampa, per creare un vero bavaglio all’informazione. Negli ultimi tempi questa morsa si è allentata, ma ora c'è la nuova politica, che è quella – diciamo così – “movimentista”, del Movimento Cinque Stelle, che è molto più pericolosa perché apre i bersagli potenzialmente a tutta la società civile, a tutta la nostra comunità professionale. E poi c’è un Paese che non solo riceve minacce dalla classe dirigente, ma le riceve dal basso, dalla criminalità organizzata, dalla malavita organizzata che - è bene sempre ricordarlo – controlla un terzo del territorio del Paese. Certo lo controlla a macchia di leopardo, perché c’è anche lo Stato, ma ci sono migliaia di giornalisti che vivono sotto il giogo continuo delle associazioni mafiose. E’ evidente che è la fotografia di una situazione in cui fare il giornalista in Italia, fare soprattutto il cronista in Italia, è un’attività pericolosa.

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India, Forum cristiano chiede maggiore protezione per le minoranze

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Proteggere la vita, la sicurezza personale e i luoghi di culto della comunità cristiana indiana. E’ la priorità indicata in un rapporto intitolato “Minoranze ai margini: libertà di religione e comunità cristiana in India”, elaborato da una rete di organizzazioni della società civile, congregazioni, Ong e presentato alle Nazioni Unite. Tra le finalità del dossier – riferisce l’agenzia Fides – c’è quella di sensibilizzare il Consiglio Onu per i diritti umani in vista della revisione periodica che riguarda l'India, prevista in questo mese di maggio. Il rapporto, elaborato dopo una serie di consultazioni svolte in varie parti del Paese, si concentra sullo stato della libertà religiosa di cui gode la comunità cristiana in India.

In India i cristiani sono circa 27 milioni
Il dossier smentisce inoltre le presunte attività di proselitismo o la crescita esponenziale dei cristiani in India. Secondo il Censimento effettuato in India nel 2011, gli indù rappresentano il 79,8% (966 milioni), i musulmani 14,23% (172milioni ), i cristiani 2,3% (27 milioni), i sikh 1,72% (20 milioni ), i buddisti lo 0,7% (8,4 milioni), i jainisti 0,37% (4,4 milioni), mentre altri culti minori, come parsi ed ebrei, costituiscono lo 0,6% (7,9 milioni) su una popolazione complessiva di oltre 1,2 miliardi di persone. I dati - rileva il rapporto - mostrano che non c'è stata alcuna modifica significativa delle proporzioni della comunità cristiana all'interno della popolazione indiana, rispetto al precedente censimento del 2001.

Comunità cristiana indiana non omogena
Il rapporto si concentra anche sul contesto politico in India, sulle vulnerabilità delle minoranze religiose, sullo status dei cristiani tribali e dalit, sulla condizione delle donne cristiane. La comunità cristiana in India – si sottolinea infine nel rapporto - non è omogenea e i suoi membri appartengono a varie confessioni religiose. Molte comunità tribali e indigene, chiamate "adivasi", originariamente animiste, si sono poi convertite al cristianesimo, così come i dalit, anche per fuggire dall'oppressivo e discriminatorio sistema castale tipico dell'induismo. Nel contesto attuale, la popolazione cristiana indiana è composta, in gran parte, da dalit e cristiani tribali.

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Kenya, i vescovi: politici sprecano risorse per comprare voti

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“L’incapacità dimostrata dalla maggior parte dei partiti politici di condurre elezioni primarie pulite e trasparenti dimostra la fragilità del sistema politico keniano alla vigilia delle elezioni generali di agosto”. Lo affermano i vescovi del Kenya, in una dichiarazione ripresa dall’Agenzia Fides, nella quale esprimono forti preoccupazioni per il clima di tensione che colpisce il Paese. I presuli notano che le elezioni primarie condotte dai singoli partiti per scegliere i candidati da presentare alle elezioni di agosto sono state caratterizzate da manipolazioni, tensioni e violenze.

Politici non in grado di gestire la situazione
“Abbiamo dei partiti politici – si legge nel comunicato - che non sono in grado di gestire in modo organizzato e pacifico la democrazia interna”. Una situazione – aggiungono i vescovi - che lascia presagire che le elezioni di agosto potrebbero essere turbate da disordini e violenze. Timori condivisi dagli investitori internazionali e dai turisti stranieri che – si ricorda nel documento - stanno disertando il Kenya.

Kenya colpito da una gravissima crisi alimentare
Il Paese africano deve anche far fronte alla peggiore crisi alimentare degli ultimi decenni. Un’emergenza causata dalla siccità. “È una sciagura e gli stessi leader – scrivono i presuli – “sprecano le scarse risorse disponibili per comprare voti”. “La cultura dell’avidità e dell’egocentrismo sta aggravando una situazione già difficile. I keniani sono spinti sull’orlo della disperazione”.

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 123

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.