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Sommario del 25/05/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Il Papa ai piccoli del Gaslini: vi porto la carezza di Gesù

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Sabato prossimo, 27 maggio, Papa Francesco si recherà in visita pastorale a Genova. Tra gli appuntamenti più attesi c’è l’incontro con i bambini malati e i loro familiari nell’Ospedale pediatrico “Giannina Gaslini”. E ieri Francesco ha riservato una bella sorpresa per i piccoli degenti. Ce ne parla Sergio Centofanti

Papa Francesco saluta i bambini del Gaslini in diretta telefonica. E’ accaduto ieri pomeriggio. Il Papa si è collegato con i piccoli attraverso l'emittente parrocchiale 'Radio fra le note' fondata dal sacerdote genovese don Roberto Fiscer, che ogni mercoledì dedica la sua diretta all’Ospedale pediatrico. Ascoltiamo le parole del Papa:

"Cari bambini ospiti dell'ospedale Gaslini di Genova vi saluto tutti con affetto in attesa di incontrarci sabato. Voglio dirvi che attendo con gioia il momento di incontrarmi con voi e con i vostri familiari, vengo per stare un po' vicino a voi, ascoltarvi e portarvi la carezza di Gesù. Lui è sempre vicino a noi specialmente quando siamo in difficoltà e abbiamo bisogno. Lui sempre ci dà fiducia e speranza. Prego già adesso per voi e voi per favore pregate per me. Grazie, ci vediamo sabato".

Dopo il saluto, il Papa ha recitato insieme ai bambini un’Ave Maria e ha impartito la benedizione ai piccoli pazienti e ai familiari. Ma qual è il significato della sua visita al Gaslini? Massimiliano Menichetti lo ha chiesto al padre cappuccino Aldo Campone, cappellano dell’Ospedale

R. – Certamente significa l’attenzione che la Chiesa, il Santo Padre, mette alla condizione della sofferenza. Qui nell’ospedale pediatrico c’è proprio un fermento. La visita del Papa è recepita come un atto d’amore: è la presenza di Dio in mezzo a noi. Non dobbiamo dimenticarlo. E’ il vicario di Cristo, che è anche speranza di un miglioramento della salute, balsamo della consolazione. Anche i non credenti capiscono che è il passaggio di tanto bene, quindi di fraternità, di attenzione all’uomo. Il Papa è per tutti.

D. – Per lei che cosa significa stare al Gaslini?

R. – Significa una condizione penitenziale. Non è sempre facile, le situazioni sono delicate e riguardano i bambini; ogni giorno mi pongo accanto a quelli che sono nella sofferenza. La preghiera innanzitutto, perché è la prima e la più grande carità che noi possiamo esercitare. Cerco di essere vicino nell’ascolto, nella presenza: qui ci sono persone da 90 Paesi, ci sono tutte le religioni… e tutti si accorgono, percepiscono che è un momento di fraternità, di solidarietà.

D. – I medici stessi dicono: bisogna lavorare con vicinanza, prossimità però non ci si può far coinvolgere - usano questo termine - altrimenti si rimane schiacciati. Nel caso di un sacerdote è così?

R. – Non è così perché il primo impegno di un sacerdote è quello di mettere il cuore accanto al cuore, di portare i pesi gli uni degli altri, come dice San Paolo, si attinge dalla preghiera questa forza. Il Signore certamente non lascia soli: prima che arriviamo noi arriva lui, nelle situazioni, nell’incontro con le persone.

D.  - Padre Aldo cosa dirà al Papa?

R. – Grazie, grazie della testimonianza di amore per l’umanità sofferente, di amore per i piccoli, di amore alla vita.

D. - Come vi siete preparati a questo incontro?

R. – Con 40 ore di adorazione consecutive, notte e giorno, proprio per sostenere questa attività apostolica del Papa, specificatamente per il Gaslini.

D. - Cosa troverà il Papa?

R. - Noi abbiamo 20 palazzi, 73 mila metri quadrati, quindi è proprio un paese e il Papa troverà tanti che gli mostreranno le piaghe: le piaghe delle mani, dei piedi, le piaghe del cuore. I genitori che non hanno alcuna ferita, nessun taglio, ma le piaghe le hanno perché sentono dentro di loro le trafitture della sofferenza dei figli. La loro è una sofferenza che assomiglia a quella della Madonna ai piedi della croce. Maria, senza morire, è la regina dei martiri. E così i genitori accanto ai loro figli soffrono. In ospedale ho sempre detto: non abbiamo un paziente, ma ne abbiamo tre. Abbiamo il bambino che è colpito fisicamente e abbiamo i genitori di cui prendersi cura. Ecco il Papa incontrerà questa umanità provata.

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Parolin scrive a presidente Messico su prevenzione disastri naturali

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Una collaborazione fondata sul bene comune per ridurre i rischi provocati dai disastri naturali. La chiede il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, in una Lettera resa nota oggi e inviata al presidente del Messico, Enrique Peña Nieto. Il capo di Stato messicano, infatti, presiede la Piattaforma Globale 2017 per la riduzione dei rischi da disastri, in corso a Cancun fino a domani. L’incontro è stato organizzato dal governo messicano, dall’Organizzazione Metereologica Mondiale e dall’Unisdr, l’Ufficio delle Nazioni Unite per la riduzione dei disastri. Il servizio di Debora Donnini

Prevenzione, formazione, coinvolgimento delle comunità locali più povere. In sostanza, per ridurre i rischi da disastri naturali, serve una fraterna collaborazione fondata sul bene comune. E’ l’auspicio che, a nome di Papa Francesco, il cardinale Pietro Parolin rivolge alla Piattaforma Globale 2017, assicurando che in questa prospettiva la Santa Sede è pronta ad offrire il proprio contributo. Nella sua Lettera al presidente messicano, il porporato sottolinea tre aspetti centrali.

Prima di tutto nel campo della prevenzione, ci sono strumenti di allerta, che possono ridurre la perdita di vite umane. Bisogna gestire meglio, ad esempio, l’acqua, risorsa preziosa ma anche tra le principali cause dei disastri. E ancora si chiedono strumenti educativi, che possano promuovere a livello locale e globale una “vera e propria cultura” per la riduzione di tali rischi.

Bisogna, poi, coinvolgere soprattutto le popolazioni più povere, cioè le più vulnerabili, nei processi educativi e di condivisione della conoscenza. E’ necessario anche concentrarsi sulla ricostruzione non solo materiale ma anche umana e spirituale.

Il terzo aspetto riguarda la capacità di mobilitazione delle comunità locali, tra cui le popolazioni indigene. Molto importanti sono le tradizioni religiose e culturali come fonti per la resilienza, cioè per dare la capacità di affrontare un evento traumatico.

Si cercano, dunque, soluzioni innovative ma per attuare questi tre documenti serve “un cambiamento di mentalità e di stili di vita”, sottolinea il cardinale Parolin. Quando, infatti, si prende in considerazione, il futuro dell’umanità, non si parla solo di questioni tecniche ma di valori, di solidarietà, aspetti che chiamano causa il bene dell’intera famiglia umana.  I disastri non sono, infatti, sono quelli naturali ma anche quelli derivanti da crisi sociali, ricorda il porporato richiamandosi alla Laudato sì.

L'appuntamento della Piattaforma Globale rappresenta una tappa importante per concretizzare tre Piani di Azioni del 2015: il Sendai Framework per la riduzione dei rischi da disastri 2015-2030, l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. Un percorso che ha tra le sfide principali “l’integrazione delle attività per la riduzione dei rischi da disastri con quelle per lo sviluppo umano integrale”, per la lotta alla povertà, all’esclusione sociale, per l’adattamento ai cambiamenti climatici e per la loro mitigazione.

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Viganò a Cannes: il cinema, strumento per raccontare la speranza

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“L’urgenza di un racconto di speranza”: è quella che predomina nel mondo di oggi e che il cinema deve e sa intercettare. Questo il punto focale dell’intervento di mons. Dario Edoardo Viganò, Prefetto della Segreteria per la Comunicazione, presente oggi a Cannes, in occasione dell’evento “Spiritualité et cinéma”. L’incontro è stato promosso nell’ambito del “Festival sacré de la beauté” che si svolge durante la 70.ma edizione del Festival del cinema di Cannes.

Il cinema apre squarci di luce nell’orizzonte
“Il cinema – ha sottolineato mons. Viganò - ha un ruolo sociale significativo, come mezzo e soprattutto come arte, ovvero è in grado di raccontare la realtà, mostrandola da vicino, addentrandosi nelle pieghe carsiche del vivere dell’uomo, senza sottrarsi a sguardi complessi o problematici”. Al contempo, la così detta “settima arte” è in grado anche di farsi portatrice  “di una visione altra, di aprire nell’orizzonte squarci di luce”. Questo perché, ha spiegato il Prefetto, “il cinema è riuscito persino a spingersi sulle tracce dell’invisibile, di Dio, a cogliere manifestazioni della Sua misericordia nella storia dell’uomo”

Raccontare storie secondo la logica della “buona notizia”
Di qui, il richiamo al quello “sguardo estroverso del cinema”, che implica “un guardare che tiene con sé, vivo ai bordi dell’immagine, quello che non si vede; esso ci mostra i propri confini e si (ci) spinge a oltrepassarli”. Ricordando, poi, alcuni registi di rilievo come De Sica, Fellini, Bresson, Loach e i fratelli Dardenne, mons. Viganò ha fatto eco alle parole di Papa Francesco che, nel suo messaggio per la 51.ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, evidenzia l’importanza di “comunicare speranza e fiducia nel nostro tempo”. Un richiamo, ha detto il Prefetto, “a tutti gli operatori dei media e dell’informazione, della comunità tutta” affinché si facciano “promotori di un racconto vero e onesto, senza omettere fiducia nell’oggi e nel domani”. Soprattutto – e questo è il compito primario del cinema – ad offrire al mondo contemporaneo storie “contrassegnate dalla logica della buona notizia”. (I.P.)

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Il card. Bassetti: famiglia, giovani, lavoro, cardine della società

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Prima uscita pubblica del neopresidente della Cei, il cardinale arcivescovo di Perugia Gualtiero Bassetti, nominato ieri dal Papa. In conferenza stampa in Vaticano, la nuova guida dei vescovi italiani ha ricordato l’importanza di tutelare la famiglia e di dare lavoro, ma ha anche parlato dell’emozione che ha provato subito dopo la nomina. Pubblicato il comunicato finale della Cei. Alessandro Guarasci

Il cardinale Bassetti vede un’Italia in difficoltà, che fatica ad uscire dalla crisi:

“Vedo spesso anche nella politica – lasciatemelo dire – delle divisioni, dei sogni tristi, perché non si pensa fino in fondo a quello che è il bene comune: famiglia, giovani, lavoro, che sono il cardine della nostra società e di ogni società”.

Soprattutto i giovani, rischiano di perdere la loro dignità se non trovano una dimensione nel lavoro. Ecco perché la classe politica si deve concentrare sui bisogni concreti della gente. Noi dialoghiamo con tutti, dice il cardinale, guardando però "al bene comune, al bene di tutti e la Chiesa vuole impegnarsi su questo aspetto". Altro nodo, l’immigrazione. Il dramma dei migranti è "un problema epocale che non durerà poco tempo. Chi è profugo va accolto, ma la gente non deve essere costretta a partire". Il cardinale mette in luce anche l’atteggiamento dell’Europa:

“E’ un’Europa molto timida, perché è frantumata, perché forse non bastano ancora gli anni dall’unità dell’Europa per amalgamare i popoli, anche tradizioni così diverse … Però, credo che la Chiesa, soprattutto con un episcopato unito a livello europeo, possa veramente dare un grande contributo, perché è proprio partendo da una unità dell’Europa su questi valori che certamente possiamo fare poi anche quell’accoglienza che è doverosa: non solo per i cristiani, ma per chiunque!”.

Il cardinale Bassetti ha parlato pure dei momenti del dopo elezione, di come sia stato incoraggiato dagli altri vescovi e dal Papa:

“Ha detto per tre volte: ‘Vai, vai, vai!’, come dire: ‘Incomincia bene il tuo lavoro e poi – m’ha detto – cammin facendo, ci rivedremo’”.

Dialogo, confronto e ascolto. Questo sarà in qualche modo il programma del neopresidente dei vescovi italiani:

“Favorire la comunione, la sinodalità e la collaborazione tra le Chiese: queste cose qui sono naturalmente anche quello che desidera il Papa dalle nostre Conferenze episcopali. Io metto la mia umile persona al servizio di quello che può essere un cammino buono della Chiesa italiana: per quel po’ che posso, con la gioia che ho nel cuore”.

Un confronto aperto anche sul tema della pedofilia nella Chiesa. Il cardinale ha fatto notare che "la situazione è preoccupante ma la Chiesa e la Cei non partono da zero”, grazie anche alle norme volute già da Benedetto XVI. "I bambini – ha rimarcato - non si toccano, i bambini sono sacri e noi pastori dobbiamo essere molto vigili e molto attenti”.

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Oggi in Primo Piano



Brasile: proteste contro Temer, presidente schiera esercito

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Manifestazioni disperse dalle forze dell’ordine a colpi di lacrimogeni e proiettili, incendi al Ministero dell’Agricoltura, danni ad altri otto dicasteri e alla cattedrale, una cinquantina di feriti, tra cui cinque persone colpite da armi da fuoco, un numero imprecisato di arresti. È un bilancio di devastazione quello registrato a Brasilia, dov’è divampata la protesta popolare contro il presidente Michel Temer. Ma dimostrazioni si sono tenute anche a Rio de Janeiro. Il servizio di Giada Aquilino

Oltre 100 mila persone, secondo gli organizzatori, 35 mila in base ai dati forniti dalle autorità di Brasilia: sono i manifestanti scesi in piazza per chiedere le dimissioni del presidente Michel Temer. Violentissimi gli scontri con la polizia. Il capo dello Stato ha mobilitato le forze armate, con 1.300 soldati e 200 marines, per difendere la sede della presidenza della Repubblica e dei Ministeri nella capitale federale, di fronte a una imponente mobilitazione popolare. Ce ne parla Loris Zanatta, docente di Storia dell’America Latina all’Università di Bologna:

“Colpisce perché Brasilia non è abituata a grandi manifestazioni e perché in Brasile la violenza politica e di piazza non è così ricorrente. Tutto ciò si deve alla crisi politica oltre a quella economica in cui il Brasile è sempre più immerso e da cui non si vede come possa uscire. Nel senso che dopo l’impeachment di Dilma Rousseff, si pensava che pur tra mille problemi Temer potesse pilotare il Paese verso le elezioni presidenziali dell’anno prossimo. Ora, gli ultimi scandali emersi, che lo coinvolgono nel grande circuito della corruzione che ha colpito la politica brasiliana, ovviamente lo priva totalmente o in gran parte di legittimità e questo è il significato: una grande crisi politica che si unisce alla crisi sociale di un Paese che da tre anni attraversa la più grave recessione della sua storia, con quello che comporta in termini di disoccupazione e di crescita del disagio sociale”.

Temer è stato incriminato dal Tribunale supremo federale per corruzione passiva, intralcio alla giustizia e associazione per delinquere: lo incastrerebbe una registrazione audio in cui avrebbe acconsentito al pagamento di alcune tangenti. Il presidente, al potere da un anno, nega ogni coinvolgimento, rifiutando le dimissioni. Già presentate otto richieste ufficiali per l’impeachment:

“I filoni della corruzione in Brasile negli ultimi anni sono stati molto numerosi, il più importante è il cosiddetto ‘Lava Jato’, che ha riguardato l’uso della posizione politica, delle cariche politiche sia per assegnare appalti e benefici a specifici gruppi economici sia in altri casi per finanziare in maniera illecita i propri partiti o le proprie campagne elettorali. E questo è il vero problema, perché è un’intera classe politica di destra, di sinistra, di centro, che ne esce totalmente delegittimata”.

La coalizione governativa rischia di sfaldarsi, in particolare sulle due grandi riforme proposte dall’esecutivo conservatore sul lavoro - con un aumento delle ore di occupazione e una riduzione dei poteri dei sindacati - e sulle pensioni. I vescovi brasiliani si sono detti preoccupati che le riforme possano aggravare la già critica situazione dei ceti più deboli:

“Sicuramente sono riforme dolorose e risultano ancora più dolorose e drastiche nel momento in cui a farle è un governo come quello di Temer che è un governo provvisorio, perché Temer era stato eletto vicepresidente di Dilma Rousseff. Detto ciò, la mia opinione è che in parte la responsabilità di questo si deve anche ai precedenti governi”.

In un quadro così complesso, a preoccupare è anche la mobilitazione dell’esercito:

“Da un lato colpisce che vi siano delle frange nelle manifestazioni politiche e sociali dell’opposizione brasiliana che ricorrono alla violenza. Dall’altro, il ricorso all’esercito dimostra la debolezza politica del presidente e l’incapacità di mantenere l’ordine. Non solleverei fantasmi golpisti del passato: quell’epoca è passata per gran parte dei Paesi dell’America Latina e sicuramente per il Brasile”.

La situazione, è il parere di Loris Zanatta, è del tutto lontana dal precipitare come in Venezuela:

“Io distinguerei immensamente, perché quella che avviene in Brasile è una crisi nella democrazia. In Venezuela vi è un regime politico che nella democrazia rappresentativa non ha mai creduto e che ha portato il Paese alla distruzione”.

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Brasile, mons. Spengler: la gente non ne può più di corruzione e crisi

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Le proteste in Brasile esprimono l’insoddisfazione della gente di fronte alla crescente crisi economica e politica che attanaglia il Paese: è quanto afferma mons. Jaime Spengler, arcivescovo di Porto Alegre. Ascoltiamo il presule al microfono di Giada Aquilino

R. – Quello a cui abbiamo assistito a Brasilia è segno e conseguenza della crisi non soltanto economico-politica che viviamo ma soprattutto di una crisi etica, antropologica. Gli uomini pubblici che avrebbero dovuto essere “guardiani” della Costituzione e dell’etica sono venuti fuori come corrotti: la violenza e le proteste sono segni vigorosi della rivolta della gente, del disgusto, dell’insoddisfazione che vive la popolazione brasiliana.

D. – Come leggere la decisione di mobilitare le forze armate, da parte del presidente?

R. – Direi almeno strana. E’ una decisione che ha colpito tutti noi. Certamente la sicurezza è necessaria, però penso che ci siano anche altre opzioni e meno radicali.

D. – Qual è l’auspicio dei vescovi di fronte a quanto sta accadendo?

R. – La Chiesa in Brasile auspica un’uscita all’altezza del popolo brasiliano, dei lavoratori, di quelli che lottano per una Nazione più giusta, più fraterna. Auspichiamo veramente che si riesca a trovare una via d’uscita, degna del popolo brasiliano.

D. – In questo quadro, quali timori ci sono per la riforma del lavoro e delle pensioni in corso?

R. – Si sa che abbiamo bisogno di una riforma delle leggi dei lavoratori, di una riforma politica, però al momento non c’è l’atmosfera giusta per portarle avanti. Le riforme sono necessarie, però dobbiamo sempre sentire anche il popolo. E il governo attuale cerca di portare avanti queste riforme senza sentire veramente il popolo. E questo ci preoccupa.

D. – Come si vive in questo momento in Brasile?

R. – Ci sono più o meno 14 milioni di persone che hanno perso il posto di lavoro: la gente è insoddisfatta e la situazione è veramente grave.

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Manchester, la Regina dai feriti. Sospesa collaborazione con Usa

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Un minuto di silenzio per le vittime. Il Regno Unito si è fermato per ricordare i morti dell’Arena di Manchester, nel giorno in cui la Regina ha visitato l’ospedale pediatrico dove sono ricoverati i bambini feriti nella strage. Sono 23 le persone che restano in gravi condizioni e in pericolo di morte. La polizia intanto definisce "significativi" gli otto arresti condotti nelle ultime ore. Francesca Sabatinelli

Otto arresti importanti per le indagini e perquisizioni che hanno fatto acquisire elementi utili. La polizia fa il punto dell’inchiesta sull’attacco alla Manchester Arena, che sembra ormai aver del tutto escluso che Salman Abedi potesse essere un lupo solitario. E’ una fitta rete quella dietro le spalle del giovane: in Libia, Paese di origine della famiglia Abedi, sono stati arrestati il padre e il fratello minore, il ventenne Hashem, che avrebbe confermato l’appartenenza all’Is sua e del fratello kamikaze che, quattro giorni prima dell’attacco si trovava in Germania, a Dusseldorf. A far vacillare l’ipotesi del gesto isolato anche la fattura dell’ordigno, sufficientemente sofisticato, di qui la certezza che esista una cellula ancora attiva. La polizia ha anche annunciato l’interruzione della collaborazione con l’intelligence statunitense a causa della ripetuta fuga di notizie circa l’attentato. Questione che, ha detto la premier Theresa May, affronterà lei stessa con il presidente Usa Trump. La regina Elisabetta, che oggi si è recata in visita all’ospedale pediatrico di Manchester dove sono ricoverati molti dei giovanissimi feriti, ha definito “malvagio” l’attacco, “è terribile – ha aggiunto – aver preso di mira un evento del genere”. Alle 22 vittime la Gran Bretagna intera ha dedicato un minuto di silenzio, mentre il livello di allerta resta critico in tutto il Paese, gli allarmi bomba si susseguono, come quello – poi rientrato – scattato in un college di Trafford, a sud-ovest di Manchester, dove nel frattempo la polizia ha trovato materiale per realizzare altri ordigni esplosivi da usare, secondo i media, in attacchi imminenti. Lorenzo Vidino, direttore del Programma sull’estremismo alla George Washington University:

R. – É chiaro che Salman Abedi era ben integrato in una rete internazionale di soggetti legati al mondo jihadista. La sua storia nasce a livello famigliare: già il padre era membro di un gruppo libico, che sin dagli anni ’90 era legato ad al-Qaeda. Quindi, in un certo senso, Salman Abedi,  “beve l’ideologia jihadista con il latte materno”. È chiaro poi che negli ultimi tempi sviluppa dei contatti  propri, i dettagli non sono ancora pubblici e probabilmente non sono neanche noti alle varie intelligence, contatti legati maggiormente al mondo dello Stato islamico, quindi meno alla galassia di al Qaeda, anche se comunque tra i due gruppi esistono dei momenti di contiguità. Inizia poi un percorso di radicalizzazione molto veloce, stabilisce questi contatti chiaramente anche operativi, vuoi in Libia, vuoi in Siria, vuoi con altri soggetti in Europa, questo è difficile al momento da dire, e con qualche aiuto esterno chiaramente decide di compiere l’attentato di Manchester.

D. - Quanto sono credibili rivendicazioni come quella fatta dallo Stato islamico alcune ore dopo l’attentato?

R. - Difficile dirlo perché lo Stato islamico ha spesso rivendicato eventi con i quali non aveva nulla a che fare e, al tempo stesso, rivendicato altri nei quali invece era direttamente coinvolto o dei quali era a conoscenza, perché una dinamica abbastanza normale è quella di attentato compiuto da soggetto non legato operativamente allo Stato islamico che però spesso, via internet, comunica ai propri referenti e allo Stato islamico, magari soggetti che non ha mai visto faccia a faccia e con i quali comunque è in contatto attraverso piattaforme Social, le intenzioni di compiere un attentato. Quindi in un certo senso lo Stato islamico lo sa solo prima, non è coinvolto nella pianificazione e poi chiaramente una volta compiuto l’attentato, lo rivendica e lo fa proprio. Questa è un arma che porta due vantaggi: all’attentatore, perché non è più solamente il gesto di un soggetto isolato ma si sente parte di un jihad globale, di un movimento globale, e anche allo Stato islamico al quale permette, con un investimento minimo, di avere un ritorno massimo. Questa è una dinamica abbastanza comune. Se questo è ciò che è successo in questo caso, oppure se Abedi fosse collegato anche a livello operativo allo Stato islamico, lo vedremo probabilmente nei prossimi giorni. Bisogna vedere chi abbia confezionato un ordigno esplosivo ben fatto, potente, se sia stato il ragazzo stesso o, come gli investigatori ritengono probabile, sia stato qualcun altro. Se questa persona fosse in Inghilterra o comunque in Europa, è chiaro che sarebbe una dinamica molto preoccupante. Al momento, almeno pubblicamente, non è dato saperlo.

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Stoltenberg: la Nato parteciperà alla coalizione anti Is

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La lotta contro lo Stato Islamico in Siria e in Iraq potrebbe avere una netta accelerazione dopo le dichiarazioni del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. “L’Alleanza Atlantica – ha detto ieri – è pronta a partecipare alla coalizione anti-Is. L’organismo, pur non impegnato sul terreno, potrebbe fornire un decisivo apporto di intelligence, per avere informazioni efficaci sui foreign fighters anche in chiave antiterrorismo. Quanto questa scelta potrebbe cambiare la situazione sul terreno? Giancarlo La Vella lo ha chiesto a Fulvio Scaglione, esperto di politica estera di Famiglia Cristiana: 

R. - Se la dichiarazione fosse seguita da fatti concreti e seri, potrebbe cambiare molto. Purtroppo quello che noi abbiamo visto in questi ormai quasi tre anni di invasione dell’Is in Siria e in Iraq è soprattutto che le azioni non sono state assolutamente decisive come le dichiarazioni avrebbero potuto far pensare. E’ inimmaginabile che ci sia voluto relativamente poco tempo per smantellare la Jugoslavia di Milosevic o l’Iraq di Saddam Hussein in meno tempo ancora e che, invece, dopo tre anni siamo ancora a fare i conti con lo Stato Islamico.

D. - L’ingresso della Nato potrebbe garantire anche un dialogo maggiore, per esempio con la Russia, che finora sta appoggiando le milizie di Damasco, ma più in chiave anti-opposizione che in chiave anti-Is?

R. – Non credo, mi pare che ci sia una forte tensione ormai tra Russia e Nato. E, d’altra parte, la Nato, non dimentichiamolo, disse di essere pronta a difendere il confine della Turchia, dopo l’incidente tra i jet russi e la controaerea turca, confine che è stato la porta d’ingresso di oltre 70 mila combattenti stranieri, che andavano a combattere in Siria, e che è stato per anni il grande canale di rifornimento per l’Is. Quindi, se la Nato entra in campo adesso, con intenzioni serie, comunque va bene, però non dimentichiamo che contro l’Is sono nominalmente impegnati 67 Paesi guidati da Stati Uniti e Arabia Saudita e se tre anni dopo stiamo ancora ad aspettare l’intervento decisivo della Nato questo ci dice che palesemente qualcosa non ci è stato raccontato giusto.

D. – E’ importante capire di quali forze concrete dispone oggi lo Stato Islamico?

R. - Lo Stato Islamico non è un esercito tradizionale, esaminabile con i criteri di tutte le forze armate. Certamente non si è interrotto il flusso di volontari, anche se si è molto ridotto. E certamente non si sono arrestati i canali di finanziamento e supporto logistico e materiale di cui l’Is gode da molti anni. Quindi valutare quanto possa ancora resistere è difficile anche per questo.

D. - Proprio per questo la riconquista di Mosul sul fronte iracheno sta durando forse troppo?

R. - La riconquista di Mosul dura troppo per queste ragioni sicuramente, ma anche per altri motivi. E cioè, quando si combatte contro un nemico annidato in una città in mezzo ai civili, la certezza di fare tante vittime tra i civili è evidente. Solo che il problema è che, dopo aver accusato siriani e russi di aver fatto una specie di ecatombe ad Aleppo, non si vuole ripetere la stessa ecatombe a Mosul, perché se si attaccasse seriamente l’Is a Mosul questo avverrebbe di sicuro. Quindi c’è anche questa ragione tra le tante che rendono così lenta la riconquista della città.

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Urbaniana: simposio nella Giornata di preghiera per la Chiesa in Cina

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A dieci anni dalla Lettera ai cattolici cinesi di Papa Benedetto XVI e in occasione della Giornata mondiale di preghiera per la Chiesa in Cina, celebrata ieri, l’agenzia AsiaNews ha organizzato alla Pontificia Università Urbaniana il simposio “Cina: la croce è rossa”, per fare il punto sulla situazione dei cristiani nel Paese. Al Regina coeli di domenica scorsa Papa Francesco aveva invitato i cattolici cinesi ad “alzare lo sguardo a Maria nostra madre, perché ci aiuti a discernere la volontà di Dio circa il cammino concreto della Chiesa in Cina”. Il servizio di Michele Raviart

La Giornata mondiale di preghiera in Cina è dedicata alla Madonna di Sheshan a Shangai, “ausilio dei cristiani” e protettrice del Paese. Pellegrini da tutta l’Asia vengono in questo santuario, in questa ricorrenza. A ricordarla, presso la Pontificia Università Urbaniana, il simposio “Cina: la croce è rossa”. Ne spiega il significato padre Bernardo Cervellera, direttore di AsiaNews:

“La croce è rossa per la presenza di tanti martiri nella storia della Cina. Poi c’è un altro tema su 'la croce è rossa', nel senso che il rosso per i cinesi è un colore di festa. Il cristianesimo porta la festa in Cina: che cosa significa? Significa che, siccome molta gente, soprattutto giovani, sono stanchi del materialismo, stanno cercando nuovi valori spirituali e li trovano nel cristianesimo, così come anche in altre religioni. Per cui in Cina c’è una rinascita religiosa impressionante: ormai si calcola che l’85 per cento dei cinesi ha una qualche dimensione religiosa”.

Nel 2017 ricorre il decimo anniversario della Lettera di Benedetto XVI ai cattolici in Cina. Un documento nato per confortare i fedeli del Paese asiatico e fornire le indicazioni sul dialogo fra Cina e Vaticano, da improntare sui criteri di verità e di carità. Un impegno confermato dalla volontà di dialogo di Papa Francesco, come afferma mons. Savio Hon Taifai, segretario della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli:

“Papa Benedetto XVI ha avuto sempre grande cura e anche sollecitudine per tutta la Chiesa, così anche per la Chiesa in Cina. Ci sono questioni difficili da risolvere, però la Chiesa è una comunità in preghiera e quindi dobbiamo fare ricorso a questa risorsa spirituale. La Lettera che lui ha scritto dieci anni fa era un invito a tutti i cattolici nel mondo a unirsi in questa giornata, il 24 maggio, per pregare insieme ai cattolici in Cina. Ovviamente Papa Francesco parla molto della misericordia, della comprensione, del dialogo:dire che sono molto complementari”.

Una Chiesa di martiri e di missionari, tra cui spiccano quelli del Pontificio Istituto Missioni Estere, tra i primi ad operare in Cina in epoca moderna. Padre Gianni Criveller, missionario del Pime ad Hong Kong e sinologo:

“Il Pime, dal 1858 è presente in Cina; circa 500 missionari del Pime hanno lavorato in questo grande Paese, facendo una grande opera di evangelizzazione e di carità. Il Pime esiste per l’Asia e all’interno dell’Asia, la Cina è sicuramente la missione in cui il Pime ha più investito in termini di energie e di uomini. Il lascito è un lascito di evangelizzazione: numerose diocesi sono state fondate dal Pime, sette martiri hanno versato il loro sangue e soprattutto moltissimi uomini e donne sono stati evangelizzati”.

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Giornata dei bambini scomparsi: 22 mila al giorno

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Si celebra oggi la Giornata internazionale dei bambini scomparsi, indetta nel 1983 in ricordo del piccolo Ethan Patz, rapito a New York il 25 maggio del 1979. Un dramma che coinvolge ogni anno nel mondo ben 8 milioni di minori, secondo il Centro internazionale per i bambini scomparsi e sfruttati (ICmec), che ha sede in Virginia, negli Usa e a cui fa capo una Rete globale di associazioni attive su questo fronte, tra cui in Italia Telefono Azzurro. Roberta Gisotti ha intervistato il fondatore e presidente, il neuropsichiatra Ernesto Caffo

Un dramma richiamato più volte da Papa Francesco. “E’ un dovere di tutti – ha ammonito - proteggere i bambini, soprattutto quelli esposti ad elevato rischio di sfruttamento, tratta e condotte devianti”. Questi bambini scompaiono e vengono poi dimenticati, in massima parte non vengono più ricercati, sia nei Paesi poveri che ricchi, 22 mila ogni giorno nel mondo, uno ogni due minuti in Europa, dove in massima parte le sparizioni riguardano piccoli migranti non accompagnati. Il prof. Ernesto Caffo:

R. – I bambini sono spesso vittime della tratta, di un mercato drammatico che li vede purtroppo oggetto di interessi nel lavoro minorile, nelle guerre. Nel nostro Paese abbiamo avuto un aumento significativo, negli ultimi anni, perché i bambini stranieri non accompagnati sono aumentati e mancano di punti di appoggio e di protezione, E' una piaga che sappiamo esistere in tutto il mondo e che richiede misure sempre più coordinate e adeguate.

D. - Dal 2009, sappiamo, i Paesi europei si sono dotati di una linea di emergenza, il 116000, per segnalare nuovi casi e aggiornare su casi già noti…

R. - Si accede attraverso sia il sito web e la chat sia attraverso le linee telefoniche. La cosa importante è che gli operatori che rispondono sono preparati e attivi  24 ore su 24 e che c’è un forte coordinamento tra Nazioni, soprattutto quelle che hanno un grave traffico di migranti, come ad esempio la Grecia o i Paesi dell’area balcanica. E ovviamente cerchiamo in questo caso di trovare dei punti di riferimento. Stiamo lavorando anche per realizzare una solida rete di segnalazione anche in quei Paesi da cui i bambini partono, quindi i Paesi del bacino del Mediterraneo, della parte africana, che possono in qualche modo attivare misure in cui i bambini possano chiedere aiuto.

D. – Siamo però di fronte ancora ad una tragedia in gran parte ignorata dai media e forse anche dalle istituzioni…

R. - Devo dire che ora, lentamente, queste realtà vengono alla luce, la sofferenza dell’infanzia incomincia a comparire sui tavoli della politica e delle istituzioni. E’ stata approvata da poco nel nostro Paese una legge sui minori stranieri non accompagnati che è uno strumento importante, utile per affrontare questo tema, così come d’altra parte ci sono coordinamenti europei. Però se pensiamo che ogni due minuti in Europa un bambino scompare, è chiaro che resta inaccettabile pensare che tanti bambini non abbiano le tutele necessarie, in un mondo che d’altra parte ha tanti adulti che sono invece molto più tutelati.

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Rapporto Antigone sulle carceri: più detenuti, meno reati

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L’associazione Antigone ha presentato questa mattina a Roma il suo Rapporto annuale sulle condizioni di detenzione in Italia con un titolo significativo: “Torna il carcere”. Dai dati raccolti si evidenzia, infatti, che negli ultimi mesi la popolazione carceraria è aumentata di numero. A finire in cella sono soprattutto stranieri e condannati a pene lievi. Adriana Masotti

Il ritorno del carcere: questo in sintesi il quadro che emerge dal XIII Rapporto di Antigone. Finita la fase di riduzione del sovraffollamento delle celle, ora, pur diminuendo i reati, i detenuti ricominciano ad aumentare. Negli ultimi sei mesi, infatti, la popolazione carceraria presente nei 190 istituti penitenziari italiani è aumentata di circa 1.500 unità. Si tratta di un totale di 56.436 persone con un tasso di sovraffollamento risalito al 112,8 %. A crescere di più sono i detenuti stranieri, il 34%, e i condannati a pene inferiori ai tre anni. Inoltre, se la media europea di coloro che sono in attesa di sentenza definitiva è del 22%, in Italia a fine 2016 la percentuale è del 34,6% in crescita rispetto all'anno precedente. Nel suo Rapporto Antigone sostiene che "ci si allontana da quel modello di extrema ratio cui l'uso del carcere dovrebbe essere improntato". Perché tutto questo? Risponde Alessio Scandurra, uno dei due curatori del Rapporto, disponibile sul sito dell’Associazione:

“Il motivo del ritorno del carcere non è semplice: probabilmente è soprattutto un cambiamento di clima culturale. Gli anni passati sono stati gli anni della sentenza Torreggiani, c’è stato un messaggio del capo dello Stato alle Camere, c’era un clima diverso. Siamo entrati in una stagione in cui ci sono nuovi decreti in materia di sicurezza, c’è un dibattito sulla legittima difesa molto spostato in un’ottica anche rischiosa per la sicurezza dei cittadini ecc… Quindi, si registra un cambio di clima e probabilmente questo è il motivo principale. E’ una crescita quantitativamente ancora limitata, ma che sembra soprattutto accelerare. E’ chiaro che se la tendenza per i prossimi anni sarà questa, rapidamente torneremo ai livelli della condanna per l’Italia della Corte europea per i diritti dell’uomo. Tra l’altro, se si confronta la popolazione detenuta di oggi con quella di un anno fa, si vede che in proporzione ci sono più detenuti in misura cautelare e quindi che si è ricorso meno all’alternativa della custodia cautelare in carcere, ovvero agli arresti domiciliari prevalentemente. E quindi, diciamo che ci sono degli indicatori quantitativi - come anche la componente degli stranieri che aumenta, generalmente associata a reati di strada, meno gravi ma che appunto queste stagioni legate purtroppo alla campagna elettorale permanente in cui siamo enfatizzano -  che mostrano abbastanza chiaramente, tra l’altro, cose che abbiamo già conosciute, che sono già successe e di cui conosciamo già gli esiti. L’esplosione cioè di una detenzione sociale fatta non di criminalità grave, quando di marginalità, di povertà, che poi diventa anche ingestibile perché scarica sul sistema penitenziario una quantità di elementi di crisi, di difficoltà individuali o collettive che poi diventa veramente molto difficile gestire”.

Generale insicurezza e minaccia terrorismo aprono dunque le porte delle carceri, ma è proprio nelle carceri che cresce il rischio della radicalizzazione che genera potenziali attentatori. In Italia gli osservati, a diversi livelli, sono 365. Quarantaquattro, quelli già condannati per reati connessi al terrorismo internazionale. Una contraddizione risolvibile? Ancora Alessio Scandurra:

“Non è nemmeno una contraddizione. Diciamo che in generale, da sempre, il carcere è un luogo di proselitismo, è un luogo dove le persone sono in una condizione di grande difficoltà esistenziale, di grande fragilità, e cercano risposte, cercano appigli per ricostruire un proprio percorso di vita. Il fatto che sia così pericoloso fargli incontrare risposte e appigli sbagliati, è anche indicativo del fatto che c’è un grande potenziale: le persone sono interessate a raccogliere stimoli nuovi, evidentemente, e quindi è su questo che bisogna lavorare. Innanzitutto su un modello di detenzione che rispetti sempre e rigorosamente i principi di legalità e le leggi dello Stato: è molto importante che nulla di quello che avviene in carcere violi le leggi dello Stato, perché questo manda un messaggio profondamente contraddittorio nei confronti delle persone, e invece, purtroppo, questo accade. Quello che noi chiamiamo sovraffollamento, per esempio, significa che ci sono più persone rispetto alla capienza stabilita dalle nostre leggi, quindi è una violazione di legge diffusa. E così via tanti piccoli aspetti … Quindi è importante creare un clima di serenità in cui il carcere possa essere permeato da stimoli e offerte costruttive e positive per le persone. E questo di per sé ha la forza di emarginare stimoli e proposte distruttivi.

Secondo Antigone in Italia vi è un effetto "criminalizzazione dello straniero". Nelle carceri gli stranieri rappresentano oltre un terzo dei detenuti, sono soprattutto marocchini, romeni, albanesi e tunisini. Oltre sei mila quelli che si dichiarano musulmani. Scandurra:

La popolazione straniera è dappertutto, sempre, oggetto di un controllo sociale, di un controllo di polizia più stringente rispetto alla popolazione autoctona. Questo non succede solo oggi e non succede solo in Italia. In una stagione come questa il fenomeno rischia ovviamente di moltiplicarsi perché esiste oggi una criminalità molto pericolosa e molto visibile proprio per la sua natura - l’atto terroristico è un atto che mira alla visibilità, alla pubblicità - inevitabilmente associata con persone che vengono da altri Paesi e questo, anche se riguarda numeri molto, molto risicati, genera un’ondata di pressione su tutti gli stranieri ospiti delle nostre comunità. E questo ha come effetto indiretto una crescita del controllo e della repressione nei loro confronti”.

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 145

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