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Sommario del 29/05/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa: la fede è fredda e ideologica se non si ascolta lo Spirito

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Bisogna lasciarsi interpellare dallo Spirito Santo, imparare ad ascoltarlo prima di prendere decisioni. E’ l’esortazione che Papa Francesco rivolge ai fedeli nell’omelia della Messa odierna a Casa Santa Marta. Se non si discerne quello che accade, infatti, la fede è ideologica. Il servizio di Debora Donnini

Lo Spirito Santo, che muove il cuore, ispira, suscita le emozioni, è al centro dell’omelia di Papa Francesco. In questa settimana, in vista della Pentecoste, domenica prossima, la Chiesa chiede di pregare perché lo Spirito Santo venga nel cuore, nella parrocchia, nella comunità. Il Papa parte dalla Prima Lettura che – dice – potremmo chiamare “la Pentecoste di Efeso”. La comunità di Efeso aveva, infatti, ricevuto la fede ma non sapeva nemmeno che esistesse lo Spirito Santo. Era “gente buona, gente di fede” ma non conosceva questo dono del Padre. Quando poi Paolo impose loro le mani, discese su di loro lo Spirito Santo e si misero a parlare in lingue.

Lo Spirito Santo muove il cuore
Lo Spirito Santo, infatti, muove il cuore, come si legge nei Vangeli, dove tante persone - Nicodemo, l’emorroissa, la samaritana, la peccatrice - vengono spinte ad avvicinarsi a Gesù proprio dallo Spirito Santo. Francesco invita quindi a domandarsi quale posto abbia nella nostra vita lo Spirito Santo:

“Io sono capace di ascoltarlo? Io sono capace di chiedere ispirazione prima di prendere una decisione o dire una parola o fare qualcosa? O il mio cuore è tranquillo, senza emozioni, un cuore fisso? Ma certi cuori, se noi facessimo un elettrocardiogramma spirituale il risultato sarebbe lineare, senza emozioni. Anche nei Vangeli ci sono questi, pensiamo ai dottori della legge: erano credenti in Dio, sapevano tutti i comandamenti, ma il cuore era chiuso, fermo, non si lasciavano inquietare”.

Lasciarsi interpellare dallo Spirito Santo, no a fede ideologica
L’esortazione centrale di Francesco è quindi quella di lasciarsi inquietare dallo Spirito Santo, cioè interpellare, e non avere una fede ideologica:

“Lasciarsi inquietare dallo Spirito Santo: ‘Eh, ho sentito questo… Ma padre, quello è sentimentalismo?’ – ‘No, può essere, ma no. Se tu vai sulla strada giusta non è sentimentalismo’. ‘Ho sentito la voglia di fare questo, di andare a visitare quell’ammalato o cambiare vita o lasciare questo …’. Sentire e discernere: discernere quello che sente il mio cuore, perché lo Spirito Santo è il maestro del discernimento. Una persona che non ha questi movimenti nel cuore, che non discerne cosa succede, è una persona che ha una fede fredda, una fede ideologica. La sua fede è un’ideologia, tutto qui”.

Interrogarsi sul proprio rapporto con lo Spirito Santo
Questo era il “dramma” di quei dottori della legge che se la prendevano con Gesù. Il Papa esorta quindi a interrogarsi sul proprio rapporto con lo Spirito Santo:

“Chiedo che mi guidi per il cammino che devo scegliere nella mia vita e anche tutti i giorni? Chiedo che mi dia la grazia di distinguere il buono dal meno buono? Perché il buono dal male subito si distingue. Ma c’è quel male nascosto che è il meno buono, ma ha nascosto il male. Chiedo quella grazia? Questa domanda io vorrei seminarla oggi nel vostro cuore”.

Bisogna quindi chiedersi se abbiamo un cuore irrequieto perché mosso dallo Spirito Santo. Il Papa invita anche ad interrogarsi se quando “viene la voglia di fare qualcosa” si chieda allo Spirito Santo che ci ispiri, che “dica di sì o di no”, o si facciano soltanto “i calcoli con la mente” . Nell’Apocalisse l’apostolo Giovanni inizia invitando le “sette Chiese” - le sette diocesi di quel tempo, dice Papa Francesco - ad ascoltare quello che lo Spirito Santo gli dice. “Chiediamo anche noi questa grazia di ascoltare quello che lo Spirito dice alla nostra Chiesa, alla nostra comunità, alla nostra parrocchia, alla nostra famiglia” e a “ognuno di noi”, prosegue il Papa, “la grazia di imparare questo linguaggio di ascoltare lo Spirito Santo”.

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Papa riceve premier canadese Trudeau, tra i temi G7 di Taormina

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Papa Francesco ha ricevuto oggi in udienza il primo ministro del Canada, Justin Trudeau, che ha poi incontrato il cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, accompagnato da mons. Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati. Nei colloqui, informa la Sala Stampa Vaticana, "sono state rilevate le buone relazioni bilaterali fra la Santa Sede e il Canada e il contributo della Chiesa cattolica nella vita sociale del Paese". Successivamente "ci si è soffermati sui temi dell’integrazione e della riconciliazione, come anche su quello della libertà religiosa e sulle attuali problematiche etiche". Infine, si legge nel comunicato, sono state trattate "anche alla luce dei risultati del recente vertice del G7, alcune questioni di carattere internazionale, con speciale attenzione al Medio Oriente e alle aree di conflitto".

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Il Papa presiede una riunione dei Capi Dicastero della Curia

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Alle ore 9.30 di questa mattina, nella Sala Bologna del Palazzo Apostolico, il Santo Padre ha presieduto una riunione dei Capi Dicastero della Curia Romana.

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I vescovi albanesi dal Papa: Chiesa in dialogo accanto agli ultimi

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I vescovi dell’Albania sono in Vaticano per la loro visita ad Limina. Domani incontreranno il Papa. Su questo appuntamento, don Davide Djudjaj ha intervistato mons. Angelo Massafra, arcivescovo di Scutari e presidente della Conferenza episcopale albanese:

R. - E’ Sicuramente un momento di grazia per la nostra Chiesa. L’incontro con il Santo Padre e con le Congregazioni Romane è l’occasione per rinsaldare il legame con la Chiesa Madre, ma anche un momento di verifica e di confronto così necessari per la continua edificazione della Comunità credente.

D. - Quali sono le principali gioie e le maggiori sfide della Chiesa cattolica in Albania oggi?

R. - La nostra è una Chiesa che ha conosciuto la sofferenza della persecuzione e che oggi vediamo risorta ed in cammino. Esistono bellissime esperienze che dimostrano la crescita di questa Chiesa. Ma quando si parla di crescita è chiaro che rimane ancora del cammino da compiere. E questo credo che valga per tutte le comunità cristiane del mondo. Le nostre sfide più intense sono quelle legate ad un’inculturazione del Vangelo che tenga conto della realtà sociale albanese come anche della sua interreligiosità. Una sfida importante è la promozione vocazionale, come la mancanza di clero sufficiente, autoctono e missionario.

D. - Come la Chiesa si inserisce nella società civile? Quali sono le questioni sociali più importanti, visto dalla Chiesa cattolica, in questo momento in Albania?

R. - Abbiamo molto a cuore le sorti della società albanese e, perciò, spesso ci rendiamo promotori, anche con i responsabili delle altre fedi, di interventi forti nella speranza di incidere non tanto sulle scelte politiche, che lasciamo a chi di dovere, quanto sul modo di fare politica; che tenga conto, cioè, del bene comune come anche dei problemi reali della gente. Anche se siamo una nazione in crescita, la crisi economica e la mancanza di lavoro ha toccato anche l’Albania e molte famiglie e giovani continuano ad emigrare, impoverendo la nostra nazione; ingiustizia, corruzione, impossibilità economica per la cura della salute e diritti dei lavoratori ignorati fanno sì che i poveri stanno diventando più poveri.

D. - Quale contributo offrono i sacerdoti, religiosi e le religiose alle attività assistenziali, educative e pastorali della Chiesa?

R. - L’aspetto della carità è stato quello che ci ha caratterizzato come Chiesa sin dalla caduta del regime comunista. L’icona del Buon Samaritano ci rappresenta benissimo non solo per quanto riguarda gli interventi specifici di natura assistenziale, che sono davvero tantissimi, ma anche per quel che concerne l’aspetto della formazione. Le scuole cattoliche oggi in Albania sono il fiore all’occhiello della Chiesa Cattolica, ma anche motivo di trepidazione perché non sempre ci sono le condizioni, politiche ed economiche, che ci permettono di realizzare quell’impatto formativo che intendiamo offrire. In questo campo il lavoro dei consacrati, soprattutto, è veramente determinante.

D. - Ci sono difficoltà nell'evangelizzazione in generale e in particolar modo nei territori impervi del Paese e dunque difficili da raggiungere?

R. - La prima difficoltà è la mancanza di clero e di mezzi economici sufficienti. Inoltre la mancanza di infrastrutture, anche se sono molto migliorate, è un problema molto serio sia per la Chiesa, nel suo servizio alle comunità cristiane che vivono in zone impraticabili soprattutto in inverno, ma anche per lo Stato, per quel che riguarda l’offerta dei servizi assistenziali di base, come pure per la pubblica sicurezza. Il fenomeno migratorio e quello della fuga verso le città sta cambiando molto anche la geografia religiosa del Paese e ci sta stimolando ad intraprendere nuove strategie pastorali.

D. - Quali sono i rapporti con le altre Chiese e in particolare con la maggioranza musulmana?

R. - Possiamo dire “buoni”. Non mancano occasioni di dialogo e di collaborazione in particolari circostanze. La convivenza pacifica tra le fedi è un tesoro che va custodito e protetto in Albania. Non mancano a volte notizie che fanno temere un certo radicamento di fondamentalismi, ma non ci scoraggiamo e proseguiamo senza indugio nell’affermazione del binomio vincente di “fede e patria”, così caro agli albanesi.

D. - La diffusione della secolarizzazione sta allontanando la popolazione dalla fede?

R. - La tenuta della fede in Albania è ancora, grazie a Dio, molto alta. Tuttavia si può notare un certo calo da attribuire fondamentalmente al secolarismo galoppante. Tuttavia, non ritengo si tratti di un allontanamento dalla fede in senso stretto, quanto invece di un certo indifferentismo e che richiede da parte nostra una maggiore cura, soprattutto in ambito formativo. Dobbiamo saper valorizzare ed educare la pietà popolare molto diffusa nel popolo albanese.

D. – La Chiesa è molto attiva anche nella riconciliazione del tessuto sociale …

R. – Sì. Non si dimentichi che la Chiesa ha un ruolo essenziale nella risoluzione delle faide familiari conosciute come “vendetta di sangue”. Molte sono le riconciliazioni che, grazie all’interessamento dei preti, dei religiosi e di laici molto stimati, come anche di alcune associazioni presenti sul territorio, si riesce a realizzare. Mi rallegro per il fatto che, il giorno di Pasqua, sono stato chiamato per riconciliare alcune famiglie.

D. - Cosa può offrire la Chiesa in Albania alla Chiesa universale?

R. - Siamo una Chiesa giovane dove si respira la voglia di crescere. Ma è anche una Chiesa carica di storia e di tradizione e che porta il colore del sangue dei suoi Martiri, 38 dei quali sono stati beatificati il 5 novembre scorso. Sicuramente essi sono una ricchezza da conoscere, soprattutto per l’esempio che possono offrire alle giovani generazioni per il loro amore a Cristo e alla Chiesa.

D. - Quali sono le sfide per i vescovi, secondo il magistero di Papa Francesco?

R. - Indubbiamente quella della misericordia che abbraccia la giustizia, quella dei ponti che scavalcano i muri, quella intramontabile di un Vangelo vivo e che fa vivere chi lo mette in pratica. 

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Le Famiglie cattoliche d'Europa incontrano il Papa

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Nell’anniversario del ventesimo di fondazione, la Federazione europea delle Associazioni familiari cattoliche, giovedì prossimo, primo giugno, incontra Papa Francesco: un’udienza privata, centrata sul valore della famiglia e sulle sfide di fronte alle quali l’Europa la pone. Francesca Sabatinelli 

Associazioni di 14 Paesi europei a comporla, presente e attiva presso il Consiglio d’Europa, la Conferenza delle Ong internazionali e la piattaforma dell’Ue per i diritti fondamentali: la Fafce, Federazione europea delle Associazioni familiari cattoliche, spegne le venti candeline a Roma. Un anniversario diviso in tre giorni di riflessione, di incontri, che vedrà, soprattutto, la tanto attesa udienza privata con il Papa, dal quale la Fafce trae incoraggiamento e fiducia e al quale la Federazione intende mostrare tutta la sua gratitudine, anche per la Amoris laetitia e per la Laudato si’. Alla vigilia dell’incontro con Francesco, la consacrazione solenne alla Vergine Maria nella festa della Visitazione, nella Cappella Paolina della Basilica di Santa Maria Maggiore. Nicola Speranza è il responsabile relazioni internazionali della Fafce:

R. - Il fatto stesso di essere ricevuti in udienza dal Santo Padre è un grande segno di incoraggiamento ed è quello di cui abbiamo bisogno in questo momento, momento in cui spesso la famiglia sembra quasi considerata un fardello, un peso, anche a livello politico, non soltanto educativo e culturale. E’ anche al centro di questo pontificato, si vede come il Papa abbia voluto dare importanza alla famiglia. Andiamo quindi dal Papa portandogli la nostra esperienza, l’esperienza della testimonianza quotidiana della bellezza della famiglia di fronte ad una realtà che spesso, dobbiamo dire, si dimostra ostile alla famiglia stessa. C’è spesso un discorso antieuropeo che si sviluppa, a torto o a ragione, ma quello di cui spesso ci dimentichiamo è che chi prende le decisioni a Bruxelles o a Strasburgo sono i rappresentanti degli Stati e chi sceglie i rappresentanti degli Stati siamo noi. Di qui l’importanza delle famiglie di essere consapevoli del loro ruolo come attori politici, con il voto in primis e tramite le associazioni famigliari. In Italia, per esempio, c’è il Forum delle associazioni famigliari, che sta facendo un grande lavoro di presa di coscienza e di dialogo con tutta la classe politica rispetto alla tematica dell’inverno demografico, della questione della denatalità e del bisogno urgente che l’Italia ha di sostenere le proprie famiglie.

D. - Quanto è difficile far passare il messaggio ‘famiglia’ alle istituzioni europee?

R. -  E’ certamente molto più difficile. Direi quasi che se ci sono molte difficoltà a livello nazionale, queste difficoltà sono quintuplicate a livello europeo, anche perché l’Unione europea è stata, nel pensiero dei padri fondatori, pensata come un’unione di pace ma poi nei fatti si è sviluppata pian piano come una realtà meramente economica e questo impedisce di fare quel passo oltre, che permette di pensare all’Unione europea, all’Europa, come una famiglia di nazioni. E’ un po’ questo il modello. Si parla sempre del modello della famiglia in tante questioni antropologiche, dibattiti talvolta molto ideologici, ma noi quello che vogliamo fare è proporre la famiglia come modello, la famiglia come modello delle relazioni all’interno degli Stati ma anche tra gli Stati. Questa è un po’ la proposta che poi si concretizza parlando di politiche serie a favore della famiglia, ma anche di relazioni tra gli Stati se pensiamo all’Europa come a una famiglia di famiglie.

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Nomine

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Per le nomine odierne consultare il Bollettino della Sala Stampa vaticana.

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Tweet: Maria ci ricorda che Dio mai si stanca di essere misericordioso

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Il Papa ha lanciato un nuovo tweet sull’account @Pontifex in nove lingue: “La presenza materna di Maria ci ricorda che Dio mai si stanca di chinarsi con misericordia sull’umanità”.

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Oggi in Primo Piano



Dopo G7, Usa ed Europa divise. Fabbri: fase di transizione cruciale

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I tempi in cui si poteva fare “pieno affidamento” sugli altri sono passati, “noi europei dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani”. Questa, senza giri di parole, la riflessione della cancelliera tedesca Angela Merkel, dopo il vertice Nato di Bruxelles e il G7 di Taormina, che hanno segnato l'esordio sul palcoscenico internazionale del presidente statunitense Donald Trump e che hanno mostrato le profonde differenze fra Stati Uniti ed Europa. Nette le divisioni sul clima, con il capo della Casa Bianca che non ha ceduto alle pressioni per restare nell'accordo di Parigi, riservandosi una decisione nei prossimi giorni. La stampa internazionale parla di un “Occidente diviso”, come conferma Dario Fabbri, coordinatore per l’America della testata di geopolitica Limes, intervistato da Giada Aquilino

R. – Siamo di fronte ad uno scontro tra Stati Uniti e Germania: uno scontro che di fatto vede da un lato gli Stati Uniti non accettare il nuovo ruolo che la Germania sta cercando di ricavare, ossia quello di Nazione indipendente dal comando americano, alla guida di uno spazio strutturato nel cuore del Continente europeo. E dall’altro lato c’è Berlino che coglie questo momento per decidere cosa fare “da grande”.

D. – Se la Merkel in settembre venisse riconfermata cancelliera, si potrebbe puntare su un rafforzamento delle istituzioni europee in concorrenza con gli Stati Uniti oppure la Brexit ha di fatto minato il Vecchio Continente?

R. – L’idea tedesca in questa fase è quella di crearsi uno spazio all’interno del Continente di reale integrazione anche politica – la cosiddetta “Europa a doppia velocità” – che dovrebbe incentrarsi sulla ‘Mitteleuropa’, cioè sulla classica sfera di influenza culturale germanica allargata anche ai centri che fanno parte della catena industriale tedesca, più la Danimarca, la Finlandia e probabilmente comprendente soltanto l’Italia del Nord. Questa è l’idea tedesca di uno spazio, per la prima volta nella storia europea, non più ancillare agli Stati Uniti: da questo nasce l’opposizione americana.

D. – Capitolo Nato: anche su quel piano gli alleati non sono più tali?

R. – Sulla Nato si scindono i propositi. Da un lato c’è Trump che comprende poco l’utilità della Nato, mentre gli apparati americani - e su tutti il Pentagono - la considerano ancora fondamentale per gestire i clientes degli Stati Uniti. Per la Germania il dibattito è un altro, relativamente alla Nato. Nel momento in cui gli Stati Uniti chiedono al governo tedesco di aumentare la propria spesa militare, la Germania non è convinta di volerlo fare per lasciare le proprie forze armate ancora sotto il dominio americano.

D. – In questo quadro, si sta ridisegnando la geopolitica riguardo a un futuro ruolo dell’Unione Europea, anche pensando a quello di Russia e Cina?

R. – Si potrebbe configurare all’orizzonte un’Europa "tedesca". Dall’altro lato però dobbiamo considerare che la Germania è un Paese molto fragile, così come lo è anche economicamente. Quindi nei prossimi decenni questo progetto, anche per la forte opposizione americana, potrebbe non vedere mai la luce. Ciò che è certo è che siamo in un momento di transizione cruciale.

D. – E Russia e Cina come si pongono in questo scenario?

R. – La Russia è certamente favorevole in principio ad una Europa ristretta e tedesca, perché ha come vecchio obiettivo quello di dividere il Continente e di utilizzare anche la leva tedesca in funzione americana. Per la Cina il discorso è un po’ diverso: la Cina guarda al Continente europeo soltanto con occhi commerciali e da sempre considera la Germania il suo interlocutore pressoché unico in Europa, sebbene non sia particolarmente favorevole ad una Europa strutturata solo intorno a Berlino. Dobbiamo aggiungere che la Cina ha moltissimi problemi interni in questa fase ed è soprattutto concentrata su quelli.

D. – E riguardo al rebus del Trattato di Parigi sul clima, cosa c’è da attendersi da Trump? Davvero un abbandono, come dicono indiscrezioni di stampa, o una posizione rivista ma non drastica?

R. – Se Trump abbandonasse, com’è probabile, l’accordo sul clima sarebbe soprattutto per una ragione di forma. L’accordo di Parigi serve soprattutto a livello dialettico, non prevede penalità per chi non rispetta l’accordo in sé. Allo stesso tempo, le decisioni di Trump in tema ambientale vanno già tutte nell’altra direzione, indipendentemente se confermi o non l’accordo di Parigi. È già stato smantellato di fatto il piano ecologico voluto da Obama. Dunque, nel caso in cui Trump decidesse anche formalmente di non rispettarlo, lo farebbe soprattutto per il suo elettorato. 

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Sri Lanka: oltre 170 morti nelle alluvioni

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Dopo quattro giorni di inondazioni è dramma sfollati in Sri Lanka. Almeno 500mila persone non hanno più nulla, il bilancio delle vittime è salito a 177 e si teme per i circa 102 dispersi. Altre precipitazioni sono attese nelle prossime ore ed è allerta anche per i coccodrilli che potrebbero invadere le strade dopo lo straripamento del fiume Nilwala. II governo ha organizzato una grande macchina dei soccorsi. Il servizio di Gabriella Ceraso

Oltre 263mila euro per le operazioni di soccorso: tanto ha stanziato da subito il presidente Sirisen per far fronte allo scenario apocalittico che mostra la sua isola. Il potente monsone sud-occidentale che la sta attraversando nel più grave disastro meteorologico dal 2003, ha spazzato via case, scuole e alberi, trasformando le strade in una mare di fango da cui svettano solo tetti. Il distretto di Manaar quello più colpito. Si fatica a raggiungere molte aree: procedono solo carri armati, elicotteri e barche militari che guardano le strade e sollevano con enormi cavi le persone riuscite a mettersi al riparo. In 100mila hanno trovato rifugio finora in 299 campi di soccorso allestiti a sud, area più martoriata, e a ovest dell’isola. La testimonianza da Colombo di Beppe Pedron, di Caritas Sri-Lanka

“In alcuni punti del Paese l’acqua sta già defluendo; in altri punti proprio per niente. E con oltre 140mila famiglie colpite, la popolazione si ritrova in alcuni centri di accoglienza, che sono principalmente le scuole e ricevono al momento cibo, vestiti di ricambio e soccorso”.

Non c’è acqua né cibo raccontano i testimoni e il governo di Colombo ha lanciato un avvertimento per il possibile proliferare di malattie ed epidemie. Ancora Pedron: 

“Particolarmente in questo periodo, cioè ormai da qualche mese a questa parte, lo Sri Lanka è colpito da una epidemia di febbre Dengue. Ed ovviamente quest’acqua, che diventa un bacino, non potrà che peggiorare nei prossimi mesi la situazione”.

Questa è la principale emergenza: il ministero della Salute ha inivato squadre speciali laddove possibile e ha avviato una distribuzione aerea dei medicinali. Tutta la comunità internazionale è mobilitata, a partire dall’Onu per rifornimenti medici e per l’allestimento di campi: in arrivo carichi di merce e personale medico dall’India e supporti analoghi da Stati Uniti e Pakistan:

“Sono attive la Protezione Civile e poi le organizzazione governative e non governative del Paese, ma anche dei Paesi esteri. L’India ha già inviato delle barche per portare i soccorsi nelle zone allagate; ha inviato anche del personale per affrontare e rispondere alle emergenze. Anche altri Stati stranieri stanno contribuendo con degli aiuti economici ma anche con beni di prima necessità”.

Dallo scorso 26 maggio l’isola asiatica è flagellata da piogge battenti, tipiche della stagione dei monsoni, che ormai quasi ogni anno si trasformano in alluvioni disastrose data la deforestazione di intere aree per colture da export come tè e gomma:

“Si aggiunge il fatto che c’è poca consapevolezza da parte del governo stesso e quindi poi delle popolazioni di una preparazione che è precedente al disastro. E quindi la pulizia dei canali, evitare di gettare la spazzatura per la strada, che poi blocca i canali di scolo. Le persone che di solito soffrono di più di queste calamità naturali sono sempre i poveri, perché spesso colpiscono magari a ridosso dei fiumi, sul letto dei fiumi, terreno demaniale dove possono costruire: tutto ciò vistosamente aumenta il loro livello di vulnerabilità".

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Africa: 50 anni fa il dramma del Biafra tra guerra e carestia

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Cinquanta anni fa, in seguito a contestate riforme territoriali della Nigeria, il Biafra si proclamava indipendente. La decisione innescò un sanguinoso conflitto tra lo Stato centrale e la Regione. Il Biafra, 14 milioni di abitanti per lo più cristiani e per due terzi di etnia igbo, zona ricchissima di petrolio e materie prime, visse per quasi tre anni prima che la secessione venisse soffocata, anche a causa di una gravissima carestia. Circa un milione le vittime. Secondo molti osservatori, quella vicenda ha provocato ferite mai rimarginate. Giancarlo La Vella ne ha parlato con il padre comboniano Giulio Albanese, direttore delle riviste missionarie delle Pontificie Opere Missionarie: 

R. – La cornice era quella della Guerra Fredda: alcune Nazioni riconobbero ufficialmente questa nuova repubblica secessionista e poi ci furono anche le interferenze di quelle che erano le potenze del tempo. Per esempio, ci fu un appoggio da parte del governo di Parigi in funzione anti-britannica – ricordiamo che la Nigeria è una ex colonia inglese – e poi, ancora, vi fu un appoggio da parte di quelle Nazioni africane, che avevano governi all’insegna dell’apartheid, come la Rodesia e il Sudafrica. È chiaro che gli interessi economici sono quelli che hanno condizionato moltissimo lo scenario del tempo. Parlare della Repubblica del Biafra significa parlare di “inferno e paradiso”, perché da una parte è una porzione della Nigeria, che davvero galleggia sul petrolio; dall’altra a quei tempi c’era una forte esclusione sociale, che per certi versi permane anche oggi. A quel tempo c’era un élite culturale, che certamente giocò un ruolo importante; dall’altra vi era il malessere, che rappresenta una costante ancora ai giorni nostri. Il problema di fondo era rappresentato, ed è rappresentato ancora, dall’identitarismo, vale a dire dal fatto che, all’interno di questi grandi Stati africani, disegnati dalle ex potenze coloniali, vi sono una molteplicità di gruppi etnici, veri e propri popoli che fanno fatica a sperimentare quell’integrazione che è un bisogno e una necessità. Di fronte all’esistenza di una molteplicità di gruppi etnici, c’è sempre un’etnia, quella dell’oligarchia dominante, che prende il sopravvento sulle altre.

D. - C’è il rischio che quelle istanze che causarono la guerra del Biafra, esplodano anche oggi in una Nigeria che tra l’altro è alle prese anche con altri problemi?

R. – Certo. Il problema riguarda sicuramente ancora il Biafra, perché sotto quelle ceneri ci sono ancora carboni accesi. In questi ultimi 50 anni ci sono state spinte secessioniste che, in una maniera o nell’altra, il governo centrale di Abuja ha cercato di contenere. Poi non dimentichiamo che c’è il problema del Nord della Nigeria: i Boko Haram, questa formazione jihadista, estremista, comunque spinge per affermare l’autodeterminazione delle regioni del Nord della Nigeria, che sono di tradizione islamica.

D. - In questa Nigeria, oggi cos’è il Biafra?

R. - Il Biafra continua ad essere una delle regioni con grandi potenzialità: c’è sicuramente una società civile che sta alzando la testa, ma direi in modo perspicace, intelligente. Diciamo che in questi anni ci sono stati anche notevoli investimenti soprattutto dal punto di vista dell’istruzione, ma c’è soprattutto l’impegno a contrastare l’esclusione sociale anche se però, purtroppo, la povertà rappresenta uno dei grandi paradossi non solo del Biafra, ma direi della Nigeria in senso lato.

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Giornata Forze di Pace. Paniccia: rinnovare ruolo missioni Onu

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Si celebra oggi la Giornata Internazionale delle Forze di pace delle Nazioni Unite. Istituita dall’Assemblea generale Onu nel 2002, vuole rendere omaggio a uomini e donne che prestano sevizio nelle operazioni di pace. Si vogliono ricordare anche le migliaia di operatori civili e militari che hanno perso la vita nello svolgimento di questo prezioso servizio: circa 3.400 dal 1948. Giorgio Saracino ne ha parlato con Arduino Paniccia, docente di Relazioni internazionali presso l’Università di Trieste: 

R. – Le Missioni di pace delle Nazioni Unite sono una parte importante non solo del diritto internazionale umanitario, ma anche della stessa costituzione delle Nazioni Unite. Naturalmente hanno avuto un’evoluzione nel corso degli ultimi anni e decenni. La Giornata è quindi l’occasione per rinsaldare i vincoli, ma è anche l’occasione per tracciare delle nuove linee e strategie per rendere questo strumento più adatto ai tempi della globalizzazione in cui viviamo.

D. – Qual è il ruolo di queste Missioni di Pace dell’Onu?

R. – Il loro ruolo è partito ormai nel lontano 1946 come forza di interposizione nell’allora vicenda del Pakistan. Sono diventate missioni sempre più complesse che si sono trasformate poi nel tempo in operazioni molto vicine al problema militare e a quello della ricostruzione degli Stati. Quindi pian piano il ruolo è diventato un ruolo importante che ha coinvolto centinaia di migliaia di soldati, eserciti di oltre 100 Paesi, alcuni preparati, altri molto meno; ha visto la partecipazione delle superpotenze – persino della Repubblica popolare cinese –, ma lo strumento è ormai per alcuni punti di vista superato ed invecchiato. Le missioni, con il terrorismo, hanno assunto aspetti sempre meno legati alle vicende delle stragi e dei conflitti tra Stati, e sempre più legati invece alle vicende delle guerre civili, tribali, religiose.

D. – Quali sono alcune Missioni di Pace che possiamo ricordare ora?

R. – Le Missioni di Pace più importanti sono state sicuramente quelle degli anni Settanta e Ottanta negli Stati africani: tutte quelle relative alle vicende della Repubblica del Congo, che poi sono state abbandonate e sostituite da missioni di forze africane con risultati anche molto dubbi, proprio per la mancanza di coordinamento stretto con il comando delle Nazioni Unite.

D. – Quali sono nel tempo gli effetti delle Missioni di Pace? Ce ne sono alcuni collaterali?

R. – Gli effetti diventano positivi soltanto se vi è una fortissima collaborazione civile-militare. Quindi le missioni devono essere più studiate, più integrate; devono tenere conto dei nuovi fenomeni e delle situazioni geopolitiche abbandonando anche vecchi modelli che possono non servire più.

D. – Quali sono oggi le Missioni di Pace in atto?

R. – Le Missioni sono molteplici, forse da un certo punto di vista troppo frantumate. Su questo la Giornata potrebbe servire per fare finalmente un punto globale della situazione o ridividendo seriamente per aree e per interventi subcontinentali, oppure per una ristrutturazione generale dello strumento che è partito ormai alla fine della Seconda Guerra Mondiale e va – appunto – rivisto e modificato in base alle nuove esigenze. 

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Muore a 110 anni suor Candida Bellotti: una vita dedicata ai malati

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Si svolgeranno domani pomeriggio a Lucca i funerali di suor Candida Bellotti, una delle religiose più anziane del mondo, morta sabato scorso a 110 anni. Il servizio di Sergio Centofanti

Il 20 febbraio scorso aveva festeggiato i 110 anni con gli auguri e la benedizione di Papa Francesco, che aveva già incontrato in Vaticano durante una Messa a Santa Marta nel 2014. Nata nel 1907 a Quinzano, in provincia di Verona, terza di 10 figli, il padre era un calzolaio e la madre casalinga, era entrata nella Congregazione delle Ministre degli Infermi di San Camillo a 24 anni, nel 1931. Si dedica totalmente ai malati, come infermiera professionale, portando sempre con sé il suo rosario e il suo sorriso.  

“Ha lasciato questa terra con la serenità che l’ha sempre contraddistinta nei suoi 110 anni di vita”, dicono le consorelle. Oltre un secolo trascorso al servizio degli altri, secondo il carisma di San Camillo de Lellis. Durante la sua vita si sono succeduti ben 10 Papi, da Pio X a Francesco.

“Il segreto per vivere tanto” - affermava - è prendere le cose come vengono”. Negli ultimi tempi esortava in particolare i giovani dicendo: “Abbiate fiducia nel futuro e impegnatevi al massimo per realizzare i vostri desideri”. A chi le chiedeva quale fosse il segreto della sua gioia rispondeva: “Ascoltare la voce di Cristo ed essere docili alla sua volontà. In tutta la mia vita ho sempre pensato: dove il Signore mi mette, quello è il posto giusto per me”. E alla gente che le chiedeva consiglio diceva: “Amare, amare e ancora amare. Ma con gioia”.  

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L'addio di Totti, mons. De Toca: un campione amato in tutto il mondo

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Commovente addio di Francesco Totti alla Roma, ieri allo Stadio Olimpico, di fronte a 70 mila spettatori e accompagnato dalla moglie e i tre figli. Ma in molti di più hanno potuto seguire l’evento in televisione. Dopo 25 anni di attività - e a quasi 41 anni di età - lascia l’unica maglia che ha indossato. Un campione del calcio amato in tutto il mondo, come afferma - al microfono di Luca Collodi - mons. Melchor Sánchez de Toca y Alameda, sottosegretario del Pontificio Consiglio della Cultura e coordinatore del settore 'Sport’ all'interno del dicastero: 

R. - E' amatissimo in modo trasversale anche da squadre rivali. Ricordo l’anno scorso, al Santiago Bernabeu, in Champions, quando i tifosi del Madrid hanno salutato Totti con una standing ovation. Perché? Forse perché vedono in lui l’incarnazione dei valori genuini del calcio che si perdono – purtroppo - a favore dei soldi, del mercato, dell’eccesso di mercificazione del calcio.

D. - Totti è forse l’ultimo esempio di una visione romantica del calcio. Il calcio è sempre più business?

R. - Ci auguriamo che ce ne siano altri di questi romantici sostenitori di un calcio pulito, di fedeltà alla propria squadra, alla squadra del cuore, alle origini, così come ci auguriamo che il calcio sia più di un business economico. Ha una componente commerciale, è inevitabile, ma che sia un business pulito, eticamente corretto e che comunque nel calcio, come nello sport, ci sia qualcosa in più del mercato.

D. - Cosa significa la fedeltà di Totti ai colori e alla maglia della Roma? Oggi siamo abituati a vedere professionisti che cambiano spesso casacca e non solo nel calcio…

R. - In effetti se c’è qualche identificazione con la storia, con i simboli, con gli obiettivi di una squadra, la fedeltà è un valore che non è monetizzabile ma che tutti riconoscono come qualcosa di importante. Totti è un giocatore che avrebbe forse potuto guadagnare di più in un’altra squadra. Invece è rimasto legato alle sue origini, ed è un valore che tutti in qualche modo riconoscono.

D. – Totti ha lasciato simbolicamente la sua fascia di capitano a Mattia, 11 anni, capitano dei pulcini giallorossi. Che cosa lascia ai giovani?

R. - La fedeltà, ma anche l’autoironia, la capacità di mettersi in discussione. Ma anche un’altra cosa che manca nel mondo ipercompetitivo dello sport professionistico: il divertirsi, il giocare per divertirsi.

D. - Mons. De Toca vogliamo fare anche noi gli auguri a Francesco Totti e alla sua famiglia?

R. - Auguri a questo grande capitano, un indimenticabile numero dieci, amato e voluto bene da tutti, in tutto il mondo. E questo è molto significativo!

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Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 149

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