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Sommario del 05/03/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Francesco all'Angelus: trattare la Bibbia come il cellulare, leggerla spesso

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Prendere confidenza con la Bibbia e leggerla spesso, come si fa con il telefonino, aiuta nel combattimento contro il male e a non allontanarsi da Dio e dalla strada del bene. E’ l’indicazione del Papa all’Angelus nella prima domenica di Quaresima, in una piazza San Pietro gremita e bagnata dalla pioggia. Il servizio di Francesca Sabatinelli

Il Vangelo della prima domenica di Quaresima introduce il cammino verso la Pasqua, e il Papa all’Angelus ricorda i quaranta giorni di Gesù nel deserto sottoposto alle tentazioni del diavolo:

“Questo episodio si colloca in un momento preciso della vita di Gesù: subito dopo il battesimo nel fiume Giordano e prima del ministero pubblico. Egli ha appena ricevuto la solenne investitura: lo Spirito di Dio è sceso su di Lui, il Padre dal cielo lo ha dichiarato «Figlio mio, l’amato» (Mt 3,17). Gesù è ormai pronto per iniziare la sua missione; e poiché essa ha un nemico dichiarato, cioè Satana, Lui lo affronta subito, “corpo a corpo”.

Con la triplice tentazione, il diavolo, spiega Francesco, “vuole distogliere Gesù dalla via dell’obbedienza e dell’umiliazione”, perché è quella la via che sconfiggerà il male, per condurlo “sulla falsa scorciatoia del successo e della gloria”:

“Ma le frecce velenose del diavolo vengono tutte “parate” da Gesù con lo scudo della Parola di Dio (vv. 4.7.10) che esprime la volontà del Padre. Gesù non dice alcuna parola propria: soltanto risponde con la Parola di Dio. E così il Figlio, pieno della forza dello Spirito Santo, esce vittorioso dal deserto”.

Nei quaranta giorni della Quaresima, quindi, i cristiani “sono invitati a seguire le orme di Gesù e affrontare il combattimento spirituale contro il Maligno con la forza della Parola di Dio”. Perché è la sua parola che "ha la forza per sconfiggere Satana", non quella nostra che non serve. Ed ecco perché bisogna leggere spesso la Bibbia, “meditarla, assimilarla”.  Occorre, indica il Papa, “prendere confidenza con la Bibbia”:

“Qualcuno ha detto: cosa succederebbe se trattassimo la Bibbia come trattiamo il nostro telefono cellulare? Se la portassimo sempre con noi o almeno il piccolo Vangelo tascabile, cosa succederebbe?; se tornassimo indietro quando la dimentichiamo: tu ti dimentichi il telefono cellulare, uh!, non l’ho, torno indietro a cercarlo; se la aprissimo diverse volte al giorno; se leggessimo i messaggi di Dio contenuti nella Bibbia come leggiamo i messaggi del telefonino cosa succederebbe?…Chiaramente il paragone è paradossale, ma fa riflettere. In effetti, se avessimo la Parola di Dio sempre nel cuore, nessuna tentazione potrebbe allontanarci da Dio e nessun ostacolo ci potrebbe far deviare dalla strada del bene; sapremmo vincere le quotidiane suggestioni del male che è in noi e fuori di noi; ci troveremmo più capaci di vivere una vita risuscitata secondo lo Spirito, accogliendo e amando i nostri fratelli, specialmente quelli più deboli e bisognosi, e anche i nostri nemici”.

La Quaresima è “il cammino del popolo di Dio verso la Pasqua”, un cammino “di conversione, di lotta contro il male con le armi della preghiera, del digiuno, delle opere di carità” è il saluto del Papa al termine dell’Angelus, quando chiede di nuovo di non dimenticare di trattare la Bibbia come si tratta il telefono cellulare:

"Pensate a questo. La Bibbia sempre con noi, vicino a noi!".

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Esercizi spirituali per il Papa e la Curia: meditazioni di p. Michelini

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Prendono il via oggi pomeriggio, nella Casa del Divin Maestro ad Ariccia, gli Esercizi spirituali per il Papa e la Curia Romana. A ricordarlo è stato Francesco che, all’Angelus, ha chiesto ai fedeli preghiere per sé e per i suoi collaboratori. Al centro delle meditazioni quaresimali, guidate dal padre francescano Giulio Michelini, è il tema della Passione, morte e risurrezione di Gesù secondo il Vangelo di Matteo. Durante il periodo degli Esercizi, come di consueto, vengono sospese tutte le udienze del Papa, compresa l’udienza generale del mercoledì. Il servizio di Sergio Centofanti

Una introduzione e nove meditazioni, precedute dalla Messa mattutina, immerse nella preghiera e nel silenzio e concluse dall’adorazione eucaristica, fino a venerdì mattina. Padre Giulio Michelini, 53 anni, milanese, docente presso l’Istituto teologico di Assisi, intende proporre una lettura esistenziale e spirituale dei brani evangelici, per imparare a stare con Gesù.

La prima meditazione, lunedì mattina, partirà dalla confessione di Pietro che riconosce in Gesù il Cristo, il Figlio del Dio vivente, per poi tracciare il cammino verso Gerusalemme. A seguire l’Ultima Cena, la preghiera al Getsemani, il tradimento di Giuda, il processo romano, fino alla morte e resurrezione.

Padre Michelini si è lasciato aiutare in una meditazione da una coppia di sposi, laddove parla della moglie di Pilato che cerca invano di convincere con i suoi sogni il marito a rilasciare Gesù, uomo innocente. In un’altra, lo ha aiutato una religiosa clarissa: è la riflessione sull’unzione di Maria di Betania, che versa su Gesù un profumo molto prezioso, tra le critiche dei discepoli che pretendevano di usare meglio il denaro. I poveri, risponde Gesù, li avete sempre con voi.

I ritiri spirituali - osserva padre Michelini - sono sempre importanti, ma soprattutto in questo tempo caratterizzato da una vita frenetica: abbiamo bisogno di fermarci, di fare una verifica di noi stessi, per capire se stiamo camminando davvero con Gesù.

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Oggi in Primo Piano



Iraq, 45mila sfollati da Mosul ovest. Sako: occorre conversione

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In Iraq, le forze governative guadagnano terreno nell’offensiva per liberare Mosul ovest dal sedicente Stato islamico. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni parla di oltre 45mila civili fuggiti. Il patriarca caldeo di Baghdad, Louis Raphael I Sako, testimonia la loro difficile condizioni nei campi allestiti fuori dalla città. Il servizio di Elvira Ragosta

Ancora una giornata di combattimenti nella zona ovest di Mosul. Secondo un comandante iracheno della polizia federale si tratta degli scontri più pesanti registrati dall’inizio dell’offensiva per liberare la parte della città ancora occupata dal sedicente Stato islamico.  Le truppe irachene si dirigono verso gli edifici governativi di Mosul ovest. I miliziani dell’Is hanno risposto finora con una raffica di almeno sei kamikaze, a bordo di altrettante autobomba, ma sono stati intercettati ed eliminati prima che colpissero i loro obiettivi. E cresce la preoccupazione per i civili: l’Organizzazione mondiale per le migrazioni parla di almeno 45mila persone costrette a lasciare Mosul ovest dall’inizio dell’offensiva governativa, per dirigersi verso i campi allestiti nei dintorni della città. L’esodo è stato particolarmente alto il 28 febbraio, con più di 17mila sfollati, e poi il 3 marzo, quando sono state 13mila le persone scappate. Per una testimonianza dall’Iraq, abbiamo raggiunto telefonicamente il patriarca caldeo di Baghdad, Louis Raphael I Sako:

R. – E’ una situazione tragica, perché sotto le tende, nel deserto, non c’è luce, elettricità, manca anche l’acqua, il cibo e tutte le condizioni per una vita dignitosa. Loro si aspettano tutto dagli altri e gli aiuti mancano. Poi, adesso è inverno ancora e nel deserto fa più freddo, soprattutto durante la notte. Questa gente ha paura di non ritornare nelle sue case, hanno paura della vendetta … E’ una situazione veramente brutta e di attesa, senza sapere quando e come questa guerra finirà.

Parte degli sfollati di Mosul ovest ha trovato riparo nei giorni scorsi anche nella parte est della città già liberata dai governativi. Intanto, nell’intero Iraq, si attende la fine dell'incubo dell'Is e il ritorno della pace. Ancora il patriarca Sako:

R. – Io penso che ci voglia la conversione di tutti: la conversione alla pace, al perdono, lasciare la vendetta, ricostruire il Paese, pensare al bene comune. C’è un futuro, ma il futuro non è magico: bisogna farlo insieme. Io sto a Baghdad, adesso, penso che ci sia qualcosa che si muove per il bene. Venerdì scorso tanti giovani sono venuti da Najaf – sono sciiti – a fare la Via Crucis con noi, e questo è nuovo! Poi, ci sono qui e lì segni di speranza. Speriamo che dopo la liberazione di Mosul possa esserci la riconciliazione e l’unità, l’unità basata sulla patria. Noi tutti siamo una famiglia umana, la religione è una cosa personale, la fede non deve costituire una barriera tra noi. Dunque, c’è qualcosa che ci unisce: la patria, ma anche la natura umana. Tutto questo aiuta anche a guardare al futuro …

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Siria: decine di migliaia di civili in fuga dalla provincia di Aleppo

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In Siria, sono oltre 66mila gli sfollati a causa dei recenti combattimenti tra le truppe del regime del regime di Damasco, sostenute dagli alleati russi, e i miliziani del sedicente Stato islamico nella provincia di Aleppo. Secondo l’Onu, che ha fornito le cifre, famiglie intere stanno fuggendo dalla violenza che interessa vari fronti e legata alla doppia offensiva delle forze turche e dei loro alleati ribelli da una parte, e le truppe siriane appoggiate dalla Russia dall’altra. “Abbiamo lasciato le nostre case a mani vuote, i nostri bambini stanno morendo di fame”: è la drammatica testimonianza di chi fugge.

Intanto, è stato ritrovato in vita il pilota dell’aereo militare precipitato in Turchia, nei pressi del confine con la Siria. Ancora da stabilire le cause dell’incidente, il gruppo islamista Ahrar al-Sham ha rivendicato l’abbattimento, ma occorre stabilire se sia avvenuto per un problema tecnico.

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Mali: pericoloso accordo tra estremisti islamici nel Nord

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Tre importanti gruppi estremisti islamici attivi nel Nord del Mali hanno annunciato la fusione in un unico movimento, il ‘gruppo di sostegno per l’Islam e i musulmani’, giurando fedeltà ad Al Qaeda. L’alleanza tra i leader di Ansar Dine, al-Mourabitoun e Al Qaeda nel Maghreb islamico, capeggiati dal tuareg Iyad Ag Ghali, è avvenuta quando nella parte settentrionale del Paese africano sono cominciati i pattugliamenti congiunti tra gli ex ribelli separatisti tuareg e le forze maliane, così come previsto dall’accordo di pace del 2015. Giada Aquilino ne ha parlato con Luigi Serra, già preside della facoltà di Studi arabo-islamici del Mediterraneo all’Università Orientale di Napoli: 

R. – E’ un’alleanza non sorprendente ma pericolosissima - perché non è certo tra forze pacifiste ma tra jihadisti e terroristi - e potrebbe far intravedere un orientamento verso questa alleanza a livello di Boko Haram compartecipe e a livello di ulteriori interessi di destabilizzazione del Paese. E’ sorprendente come i tuareg si siano lasciati completamente coinvolgere in un accordo di prospettive terroristiche jihadiste, in luogo di far simpatizzare l’opinione pubblica nella direzione del loro perseguire momenti di auto-determinazione e controllo delle proprie terre sfuggite alla connotazione tuareg o berbera tout court. Certo è che gli scenari geopolitici, sociali e soprattutto economici nell’area maliana e per maggiore estensione verso Niger e Ciad al momento attuale risultano allarmati da questo accordo.

D. – Quindi potrebbero esserci conseguenze anche al di là dei confini del Mali?

R. – Penso assolutamente di sì. La grande preoccupazione è il ruolo che Boko Haram come parte coordinatrice di questo accordo tra gli altri gruppi jihadisti può aver già recitato o sperare di recitare.

D. – E’ possibile che l’annuncio di questa alleanza sia collegato al fatto che nel Nord sono incominciati pattugliamenti congiunti tra gli ex-ribelli separatisti tuareg e le forze maliane, come previsto dall’accordo del 2015?

R. – Appunto. Quell’inizio di pattugliamenti potrebbe aver significato un passo verso un’intesa mirata a dare al territorio una regolamentazione, una forma di sicurezza. Ciò contrasterebbe evidentemente con gli obiettivi e i sistemi di lotta dei jihadisti.

D. – Ma gli stessi tuareg, al loro interno, quanto poi sono coesi?

R. – Non sono coesi e lo prova il fatto che alcuni non si riconoscono e trovano dannosa l’accettazione tout-court dell’Azawad da parte delle strutture internazionali o della politica locale. E – secondo certe letture - i tuareg collegati ai gruppi jihadisti per un qualsiasi procedimento di occupazione del territorio e di controllo degli esiti politico-militari sugli stessi sarebbe di cattiva lettura, negativa, per gli interessi generali dei tuareg.

D. – Quindi una normalizzazione del Paese per dove potrebbe passare?

R. – Potrebbe passare attraverso un procedimento di presenza politica operativa sul territorio, non frammista alle incursioni dei jihadisti.

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Yemen: riapre ospedale Msf ma continua la lotta ad Al Qaeda

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Nello Yemen, si intensifica la campagna di bombardamenti degli Stati Uniti contro la frangia locale di Al Qaeda. Colpite tre province nel Sud del Paese, che da due anni è scontro di una guerra civile fra i sostenitori del presidente Hadi e i ribelli sciiti Houti. A Nord, intanto, riapre un ospedale di Medici Senza Frontiere, bombardato lo scorso ottobre. Il servizio di Michele Raviart

Circa 30 bombardamenti di aerei e droni, raid di elicotteri e, secondo alcune testimonianze smentite dal Pentagono, forze speciali di terra. Un dispiegamento di truppe americane mai visto in precedenza sta segnando, sotto la presidenza Trump, una politica più aggressiva contro Al Qaeda nello Yemen. I jihadisti si stanno rafforzando nel Sud del Paese, approfittando della guerra civile tra le forze del presidente Hadi, sostenute dall’Arabia Saudita e dalla comunità internazionale e i ribelli sciiti Houti, appoggiati dall’Iran e che controllano la capitale Sana’a. Un conflitto feroce che non ha risparmiato neanche gli ospedali. Una serie di attacchi alle strutture sanitarie nel Nord del Paese, tra cui, il 26 ottobre scorso, l’ospedale di Medici Senza Frontiere (MSF) ad Haydan, che era stato evacuato. Nei giorni scorsi la struttura, che ha un bacino di utenza di 200 mila persone, è stata riaperta, in un contesto in cui la situazione dei civili resta molto difficile, come spiega Francesco Segoni, operatore di MSF che in Yemen ha coordinato il progetto di Amran:

R. – La vita quotidiana della popolazione è durissima, anche perché la popolazione è presa tra due fuochi. Non dimentichiamo che quella che viene a volte dipinta come una “guerra civile”, in cui la popolazione intera è schierata da una parte e dall’altra, in realtà vede la grande maggioranza della popolazione semplicemente succube della situazione. Il sistema sanitario nel Paese è distrutto: persino a Sana’a, nella capitale, gli ospedali più grossi sono ormai completamente disfunzionali; non hanno più i mezzi e le risorse economiche; non possono pagare gli stipendi al personale, non possono procurarsi medicine, non hanno più antibiotici né medicine. Non hanno nemmeno l’energia per far funzionare l’ospedale. Immaginiamo che nelle regioni più povere e remote del Paese la situazione è veramente catastrofica. Anche un parto, anche il più banale dei problemi di salute, oggi può diventare una tragedia per la popolazione yemenita.

D. – Quante persone sono coinvolte, e di che cosa c’è bisogno, di aiuti materiali?

R. – Si stima che sia più della metà della popolazione del Paese. Un Paese di 24 milioni di persone ne vede 14-15 che non hanno sufficiente accesso a cure mediche, anche di base. Quello che manca è sicuramente la presenza di più soggetti, di più attori umanitari, perché ogni organizzazione presente sul territorio, tra cui evidentemente Medici Senza Frontiere che fa quello che può, ma è veramente arrivata al massimo della propria capacità. Non si vede la fine di questo conflitto, il che significa che la scelta di essere presenti sul territorio è anche una scelta fatta assumendo dei rischi.

D. – Che cosa significa riaprire un ospedale nella zona Nord dello Yemen che è particolarmente vulnerabile?

R. – Nel momento in cui devi prendere la decisione di chiudere il tuo sostegno a un ospedale, di evacuare anche il personale internazionale e parte di quello locale, è una decisione difficilissima perché sai che stai lasciando una popolazione che è vittima di quei bombardamenti – attenzione, non dimentichiamolo – senza alcun sostegno medico, senza accesso alle cure. Sai quanto già era precaria la situazione prima, perché lo hai visto con i tuoi occhi, e a malincuore sei costretto a ritirarti. Quindi tornare significa tornare a dare sostegno a questa popolazione che è quella che ne ha più bisogno: e perché sono le zone più complite e bombardate; e perché, più si va nelle periferie, nelle zone remote e nelle regioni lontane dai centri urbani grossi, più si trovano le situazioni di disastro e di bisogno assoluto di sostegno.

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In Somalia è allarme carestia. Oltre cento finora le vittime

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Allarme carestia in Somalia. Il premier Ali Khaire ha denunciato che almeno 110 persone sono morte di fame in sole 48 ore nella regione di Bay, nel sud-ovest del Paese. E' la prima volta che il governo somalo fornisce una cifra da quando, martedì scorso, ha dichiarato lo stato di calamità nazionale. L'Onu ha stimato che sono cinque milioni le persone che nel Corno d’Africa necessitano di aiuto urgente, a causa della siccità e della conseguente carestia. I bambini malnutriti, sempre secondo le Nazioni Unite, sarebbero oltre 360mila, tra loro 70mila stanno morendo di fame.

Ad aggravare la situazione, la minaccia del colera a causa della mancanza di acqua potabile. Si stima che siano migliaia le persone riversatesi nella capitale Mogadiscio in cerca di cibo. Il mese scorso il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, aveva lanciato un appello per ottenere aiuti per 4.4 miliardi di dollari per quattro Paese: Somalia, Nigeria, Sud Sudan e Yemen. (E.R.)

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La storia di Franck: da giornalista in Camerun a rifugiato in Italia

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In Italia sono oltre 70 mila le domande presentate dai richiedenti asilo. Per molti di loro questa è l'unica strada, seppur lunga e difficile, che possa offrire la possibilità di ricominciare a vivere una nuova esistenza, dignitosa e sicura. E' ciò che è successo a Franck Tayodjo, giornalista camerunense, arrivato in Italia dopo la fuga da un carcere del suo Paese nel quale ha subito brutali violenze fisiche e psicologiche. Ascoltiamo la sua storia nel servizio di Marina Tomarro

Essere costretti a scappare dal proprio Paese per non avere più paura di non riuscire a tornare a casa dopo il lavoro o di non trovare la propria famiglia in buona salute o per il terrore di venire arrestati durante la notte: è stata questa la vita del giornalista Franck Tayodjo, fuggito dal Camerun dopo essere stato vittima, in prigione, di violenze di ogni genere, come ci racconta nella sua testimonianza:

R - Non ho avuto il tempo di mettere qualcosa dentro una valigia, non ho potuto prendere nulla. Ho lasciato tanto. Penso soltanto a tutto quello che ho dovuto lasciare: i famigliari, gli amici, i parenti … Essere obbligato a partire, non parti perché scegli di farlo. Torno a casa, racconto a mia moglie la giornata e le dico che un tale che lei conosce è sparito durante la notte, un giornalista che conosci non c’è più, non si sa dove sia andato. E raccontavo questo a mia moglie con un distacco, come se la cosa non mi riguardasse. Questo fino a quel giorno, quando sono venuti a bussare alla mia porta. La prima cosa che pensi è nasconderti, sperare che il tuo nascondiglio sia un posto dove nessuno ti possa trovare. Però quando senti le grida di tua moglie, di tuo figlio, sei costretto a consegnarti. Anche il più terribile degli uomini non lascerebbe piangere la sua famiglia per colpa sua. È un passaggio che ogni volta cerco di dimenticare oppure di raccontare con un certo distacco. Questa cosa ormai mi ha segnato per la vita. Quando mia moglie è arrivata qui, mi ha detto: “Tu sei cambiato”, ed io: ”Perché tu, no?”. Andare via, partire per poi ritornare, è sempre un po’ morire.

E Franck, dopo essere riuscito a fuggire, riesce ad arrivare a Roma dalla Nigeria, nascosto nella stiva di un aereo, Gli inizi sono molto difficili ma grazie all’aiuto del Centro Astalli, la sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati, riesce ad ottenere lo status di rifugiato politico e a fare il ricongiungimento familiare con la moglie. E oggi la sua nuova vita è ancora tutta da costruire:

R - Non faccio previsioni. Vivo la quotidianità. E ogni cosa che accade in quella quotidianità, cerco di prenderla con due mani, cerco di vedere qualcosa di positivo in quello che arriva in quel giorno, in quel momento: se mi danno un piccolo spazio o qualcosa da mangiare, dico: “Grazie”. Quando incontro un amico o una persona che viene dal Camerun a trovarmi e mi lascia qualcosa dico: “Grazie”; quando mi chiamano per un lavoro dico: “Grazie”. Quindi non ho un progetto definito, so soltanto che non devo mettere limiti alla Provvidenza.

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Bullismo: per sconfiggerlo un movimento di studenti a Lecce

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In Italia è nata dal basso la battaglia civile contro il bullismo: un gruppo di adolescenti di una scuola di Lecce ha detto no agli atti di violenza scolastica fondando il movimento "MaBasta". Una iniziativa che, ad opera degli stessi ragazzi, agisce su più fronti, combattendo il fenomeno con la messa in rete di informazioni utili ai diretti interessati, divulgazione e cultura dell'accettazione dell'altro. I particolari da Paola Simonetti

E' lui il prepotente per definizione contro cui urlano il loro "MaBasta", una protesta che in realtà è anche l'acronimo della loro iniziativa: “Movimento anti-bullismo animato da studenti adolescenti”. Proprio dai ragazzi, sostenuti dal loro professore di informatica, è nata, un anno fa, nell'istituto tecnico-economico Galilei-Costa di Lecce, la battaglia contro le vessazioni scolastiche fra coetanei.

A stimolare l'azione è stato lo sgomento per la notizia del tentato suicidio di una dodicenne di Pordenone, tormentata dai compagni di scuola. Così, nove studenti della Prima A, hanno messo mano ad un ricco sito web, MaBasta.org, utile ai diretti interessati, vittime o autori di bullismo che siano. Per Giorgio, Martina e i loro compagni, l'iniziativa è un cammino complesso, ma irrinunciabile:

"In tutte le cose che facciamo non ci rivolgiamo ai professori, ai presidi o ai genitori, ma agli stessi adolescenti: vogliamo che siano proprio loro a risolvere questo problema".

"Il nostro scopo finale è quello di isolare e mettere all'angolo i bulli. Raggiungere questo scopo non è facile. Infatti, ci dobbiamo sforzare a far capire a tutte le persone che sono i bulli ad avere problemi perché una persona serena e tranquilla non godrebbe mai a far del male ad altre persone."

Il contesto è quello di un fenomeno che in Italia vede, secondo i dati di Telefono Azzurro, almeno un caso al giorno di bullismo e cyberbullismo, nonché vittime delle vessazioni sempre più giovani. La strategia di contrasto dei ragazzi dell'Istituto Galilei-Costa di Lecce è concreta e variegata, ad esempio con l’idea della BulliBox nelle scuole, un'urna dove fare segnalazioni anonime di atti di bullismo, oppure con l’individuazione in giro per la Penisola di classi cosiddette “debullizzate”, ovvero prive di atti di prepotenza, iniziativa questa che ha riscosso molto successo, come racconta il professore-tutor degli studenti pugliesi, Daniele Manni:

"L'anno scorso sono state oltre 150 classi in tutta Italia ad aver chiesto questa sorta di bollino verde che poi invece, alla fine, è una locandina gialla che viene applicata fuori dalla porta dell'aula con questa dicitura: 'Questa classe è una classe debullizzata'. Un'altra azione molto concreta, che sta partendo in questi mesi, è quella di individuare nelle scuole che lo volessero fare le figure dei 'bulliziotti', sia nelle classi sia nella scuola, e sono i poliziotti di istituto. Sono semplici figure di riferimento di ragazzi, appartenenti alla classe o alla scuola, che si assumono la responsabilità di tenere sotto controllo la situazione bullismo. Loro devono tentare di sedare ma, se non riescono, sono autorizzati poi a interfacciarsi con le persone adulte che possono essere gli insegnanti o il dirigente".

Una presa di responsabilità diretta dunque, quella degli studenti dell’Istituto Galilei-Costa di Lecce, che manda un potente messaggio alla società civile: avere il coraggio delle proprie idee e prendere posizione per difenderle può davvero cambiare un po’ il mondo:

"Il modo migliore per lasciarvi è con un'esclamazione: 'MaBasta!'".

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Un libro fa luce su San Longino, il Santo della lancia

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Era il soldato che con un colpo di lancia squarciò il costato di Cristo sulla Croce? Il centurione che, commosso dalla morte di Gesù, ne affermò la divinità? O piuttosto il capo del picchetto di militari messo a guardia del sepolcro? Tante le identità che, nel tempo e nei vari scritti, sono state attribuite a San Longino, una figura che resta ancora avvolta in un alone di mistero, cui contribuisce a far luce il libro “Longino, il Santo della lancia” uscito in questi giorni, edito da Graphe.it. Ce ne parla Roberta Barbi: 

“Gesù, emesso un grande grido, spirò. Allora il velo del tempio si squarciò in due dall’alto fino al basso. E il centurione, vistolo spirare gridando a quel modo, esclamò: ‘Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!’”.

Da queste poche parole del Vangelo di Marco, ma che si ritrovano con qualche differenza di particolari in quelli di Luca, di Matteo e di Giovanni, deriva il culto di San Longino, forse uno dei Santi militari ancora oggi meno studiati. Che fosse il soldato che con la lancia ferì il costato di Gesù da cui sgorgarono sangue e acqua oppure il centurione romano convertito ai piedi della Croce oppure il militare a capo delle guardie del Santo Sepolcro? A rispondere, dopo un lungo studio dei testi, alcuni dei quali mai tradotti in italiano, è il prof. Gianluca Orsola, docente di Lingua latina alla Pontificia Università Lateranense di Roma:

“Longino è un’unione di tutti questi, perché comunque sono varie sovrapposizioni nei secoli. Si parte appunto da questo personaggio che era alla base della Croce: la lancia λόνγχη – dal nome 'lancia', poi 'longino' – perché ovviamente nei Vangeli apocrifi si cercava di dare un nome ai vari personaggi che poi rimanevano anonimi nei Vangeli canonici. Questi personaggi sono tutti un po’ fusi insieme e, quindi, hanno dato luogo a questo Longino, ma effettivamente non potrei dire se fosse uno o l’altro”.

Sappiamo che in seguito Longino abbandonò la milizia, venne istruito nella fede dagli Apostoli e se ne andò a Cesarea di Cappadocia, della quale divenne il principale evangelizzatore, conducendo laggiù una vita di santità che si concluse con il martirio, come spiega ancora il prof. Orsola:

“Longino suggella la sua vita con il martirio, prima della pace costantiniana il martirio era un po’ il coronamento: l’eroicità delle virtù, l’eroe delle virtù era il martire. E quindi il martire, addirittura come eroe, paragonato a chi vinceva le gare nei circhi, l’esempio per chi voleva aspirare alla beatitudine eterna. Il primo martire è Gesù. Longino, temporalmente parlando, è molto vicino al martirio di Gesù”.

Longino e la sua lancia, comunque, furono immortalati da diversi artisti: è del Bernini stesso la statua alla base di uno dei quattro piloni che sorreggono la cupola di San Pietro, ma anche la città di Lanciano pare derivi il suo nome latino da quello più antico di “Anxanum”, legato alla prodigiosa lancia di Longino. Gli imperatori del Sacro Romano Impero avevano tra le proprie insegne la “sacra lancia”: una punta di questa è ancora oggi custodita a Vienna; un’altra reliquia fu invece conservata a Parigi prima di andare dispersa nella Rivoluzione francese. Perché tutta questa importanza attribuita alla lancia di Longino e qual è quella vera?

“Ce ne sono diverse parti, anche perché era stata divisa in piccole parti, ecco perché esistono vari luoghi che rivendicano di avere la lancia. Il fatto, invece, interessante è che la lancia è un’arma a punta e i talismani con la punta erano considerati più potenti. E in più questo è un talismano che ha toccato il Cristo, come elemento di forza e potenza per chi lo possedesse”.

I martiri, per la Chiesa, sono sempre esempi di virtù. Papa Francesco, all’Angelus del 26 dicembre 2016, in occasione della solennità di Santo Stefano, ha detto che ci sono più martiri oggi che nella Chiesa dei primi secoli. Cosa racconta un martire come San Longino all’uomo di oggi?

“Longino è un esempio: ha voluto dichiarare che Gesù è il Cristo fino alla fine. Longino che, secondo una tradizione si convertì ai piedi della Croce, secondo un’altra tradizione medievale addirittura riacquistò la vista con il fiotto di sangue che sgorgò dal costato di Cristo, ha sempre dichiarato che Gesù era il Cristo: la coerenza e l’eroicità delle virtù”.

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 64

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.