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Sommario del 07/03/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Esercizi spirituali: ritrovare l'unità attorno alla Cena del Signore

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“Il pane e il corpo, il vino e il sangue”. E’ questo il tema, tratto dal Vangelo di Matteo dell’Ultima cena, che il padre francescano Giulio Michelini ha sviluppato nella terza meditazione tenuta stamani al Papa e alla Curia Romana, durante gli Esercizi spirituali ad Ariccia. Dall’offerta totale di Gesù in corpo e sangue per la salvezza dell’umanità, il predicatore ha tratto un messaggio di unità e condivisione per tutti i cristiani. Il servizio di Gabriella Ceraso

Nell'Ultima Cena: festa e comunione, ma anche peccato e fragilità 
La dimensione antropologica, teologica ed esistenziale del mangiare insieme. E’ da qui che parte la meditazione di padre Michelini. “Si mise a tavola con i Dodici”, sta scritto nel Vangelo di Matteo, in questo mangiare insieme c’è la bellezza della condivisione, spiega il predicatore, ma anche la nostra umanità, il peccato e la fragilità simboleggiati dal cibo, come narrano tanti episodi biblici, fino alla Laudato si' di Papa Francesco, quando parla di egoismo in rapporto al cibo:

“Possiamo immaginarci che cosa deve essere accaduto in quella cena. Era una festa: naturalmente i teologi e gli esegeti discutono molto sul carattere pasquale o meno di questa cena. Ma è chiaro che era bello per loro stare insieme. Ma stare insieme mette in rilievo anche la nostra umanità. E questi elementi sono presenti nella cena di Gesù: il primo, quello dell’amore, con il quale questa cena è stata preparata, e l’amore che Gesù offre con il cibo che dona. Ma c’è anche, in questa cena, l’odio, la fragilità, la divisione. Mangiare il cibo, se ci pensiamo bene poi, ha a che fare proprio con una dimensione umana”.

E’ la dimensione della debolezza, del riconoscersi non autosufficienti, e mangiare insieme ad altri è confessare ad altri questa condizione di creatura, “condizione limitata”, come quella che emerge anche dalle cene dei primi cristiani narrate da S. Paolo a Corinto, e segnate, fa notare padre Michelini, dall’attaccamento di ciascuno al proprio pasto e da una mancanza di vera condivisione. Ed è emblematico che proprio in quel quadro di fragilità dell’Ultima cena emerga il tradimento di Giuda, che covava da tempo.

Gesù lascia segno della sua futura presenza: dona tutto se stesso in corpo e sangue
Altrettanto emblematico, però, prosegue il predicatore francescano, è che proprio nella notte in cui viene tradito, Gesù non ritira il suo dono e dà tutto quanto gli rimaneva di poter dare: corpo e sangue. Proprio per mezzo del cibo mangiato insieme, Gesù lascia un esempio e il segno della sua futura presenza:

“Per noi credenti in Gesù, è proprio la Parola che si è fatta carne. E dunque, tutto ciò che Gesù, il Figlio, aveva offerto di sé, la sua divinità, era stata offerta con l’Incarnazione. Tutto quello che il Figlio, che il Verbo e la Parola poteva offrire, nella sua divinità, è stato offerto con l’Incarnazione. Come dice Paolo: ‘Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio’. E dunque, ecco che con quel pane ora la sua umanità doveva essere donata. Certo, in quella umanità c’è anche il Figlio di Dio e la Parola. Ma quel pane è proprio la carne, perché è in questa carne che quella Parola è diventata tale; e dunque il Corpo e il Sangue. Gesù è totalmente povero, non perché abbia vissuto semplicemente poveramente, ma perché non ha più nulla da difendere. E infatti, se ci pensiamo bene, proprio in questa cena dona tutto quello che gli rimaneva”.

Solo con la Passione c'è la remissione dei peccati
E’ invece nelle parole di Matteo sul calice, in quell’Ultima cena, sottolinea ancora padre Michelini, che risalta un elemento originale, cioè il sangue di Gesù connesso al perdono dei peccati. “Sarà versato per molti, per la remissione dei peccati. Finalmente chi legge questo Vangelo scopre il significato del nome di Gesù, “Dio salverà”, e capisce il modo in cui lo farà, cioè la Passione:

“Non è una semplice formula quella che Gesù recita; non è qualcosa di estrinseco. Potremmo anche osare di dire che è troppo facile: ‘Dio ti vuole bene’. È troppo facile dire: ‘Dio ti perdona’. Non ci costa nulla in fondo dire: ‘I tuoi peccati sono perdonati’. Ma solo qui, con il sangue versato, finalmente allora emerge il modo con il quale verranno perdonati i peccati: e cioè con la morte del Cristo. Perché, come dice il Salmo, solo Dio può pagare il prezzo del peccato. L’uomo non può riscattare se stesso. E come leggiamo nel Libro del Levitico, e Matteo conosce bene questa simbolica giudaica, il peccato viene rimesso soltanto con il versamento del sangue”.

I cristiani crescano in unità e condivisione
Tre sono infine le domande che padre Michelini pone per la riflessione al termine della meditazione. La prima riguarda il nostro rapporto col cibo e chiede di non avere attaccamenti ma padronanza di sé; la seconda è un invito a crescere ancora nell’unità tra cristiani, come discepoli intorno alla cena col Cristo; e l’ultima è una domanda sul perdono e chiede di essere veramente consapevoli che Gesù non solo a parole ma davvero con la propria vita, ci ha ottenuto la misericordia del Padre.

Consultare anche: introduzione, prima meditazione, seconda meditazione.

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Nomine

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Per le nomine odierne, consultare il Bollettino della Sala Stampa vaticana.

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Vaticano: alla vigilia dell'8 marzo nasce la Consulta femminile

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Presentazione stamattina in Sala Stampa vaticana della “Consulta femminile”, l’organismo permanente, istituito all’interno del Pontificio Consiglio della Cultura nel giugno 2015 per dare spazio e continuità alla voce delle donne all’interno del Dicastero. Trentasette le componenti coordinate da Consuelo Corradi, pro-rettore alla ricerca e ai rapporti internazionali dell’Università Lumsa di Roma. Alla presentazione, oltre a molte di loro, era presente il card. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio. Il servizio di Adriana Masotti

Fino a poco fa non c’era nessuna donna a livello dirigenziale nel Pontificio Consiglio della Cultura, mancava dunque l’immagine di Dio nella sua completezza. Sono le parole forti con cui il card. Ravasi apre la sua presentazione della “Consulta femminile”. Ricorda, da illustre biblista, che Dio creò l’uomo a sua immagine e lo creò maschio e femmina. Ora, conclude, con la nascita  della Consulta nel Dicastero le cose sono cambiate. Sentiamo da lui stesso il perché di questa iniziativa e quale il contributo che vuol offrire alla Chiesa e alle donne:

"Vuole essere soprattutto uno sguardo femminile rivolto a tutte le attività del nostro Dicastero. Il loro contributo potrebbe essere segnalato a due livelli. Da un lato certamente sui contenuti; alcuni contenuti che non avevamo previsto e che fanno parte di più della loro esperienza femminile, della loro esperienza di lavoro, anche laica. Il secondo aspetto è quello dello stile: riuscire a introdurre, per esempio, una lettura molto più globale, colorata, della realtà e dei temi che noi affrontiamo, facendo perdere un po’ quell’analisi che è solo squisitamente teologico-filosofica, propria del linguaggio ecclesiale".

D.  – Il Papa ultimamente ha detto: “Non è tanto una questione funzionale quella del ruolo della donna nella Chiesa ma di contributo al pensiero, alla riflessione”…

R. - Difatti io ho escluso esplicitamente che fosse un’aggiunta al dicastero per riuscire ad avere le quote rosa oppure per avere una specie di cosmesi. No: loro entrano nell’interno dei meccanismi della nostra “politica culturale”.

Docenti universitarie, imprenditrici, impegnate in politica, artiste, giornaliste. Due le religiose e due le componenti della Consulta dipendenti del Vaticano: la collega della Radio Vaticana Roberta Gisotti e Micol Forti, responsabile della Collezione d’arte contemporanea dei Musei Vaticani. Grande la varietà di provenienza culturale, geografica e perfino confessionale con la presenza anche della teologa musulmana iraniana Shahrazad Houshmand. A coordinare i loro incontri di lavoro la dott.ssa Corradi, che ha messo al centro della loro riflessione il tema della differenza femminile. Sentiamo:

"Le donne sono diverse dagli uomini. La parità dei diritti non significa perdere le nostre differenze. Qual è questa differenza femminile? Io la sintetizzo in questo modo: saper mescolare la tenerezza e la forza. E vorremmo essere testimoni per gli uomini che ci si può commuovere, che si può soffrire e gioire con gli altri senza perdere la propria forza".

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Oggi in Primo Piano



Iraq: speranze e drammi dei cristiani della Piana di Ninive

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Prosegue l’avanzata dell’esercito dell’Iraq nella parte ovest di Mosul, ancora nelle mani del sedicente Stato Islamico. Sono circa 300 mila gli iracheni sfollati dalla città del nord del Paese. Sarebbero invece almeno 72 mila quelli rientrati nelle proprie abitazioni nelle zone riconquistate dalle forze di sicurezza irachene. Il conflitto ha colpito in modo particolare la comunità cristiana. Circa 1 milione i profughi fuggiti dalla regione di Ninive, 500 mila coloro che hanno scelto di rimanere. Giancarlo La Vella ne ha parlato con il collega Stefano Marchi, da poco rientrato da quelle zone: 

R. - Per quanto riguarda la comunità cristiana, due terzi della popolazione, 1 milione circa che viveva in Iraq, è dovuta fuggire. Questi cristiani, che hanno dovuto lasciare le loro case, sono sfollati all’interno dello stesso Iraq e soltanto circa mezzo milione continua a vivere in condizioni peraltro difficili nei villaggi e quartieri tradizionalmente loro.

D. – A proposito di questo, ti è capitato di avere un’esperienza diretta con qualche centro abitato che hai visitato?

R. -  Sì, ho visitato due villaggi caldei nella provincia di Mosul, a pochi chilometri dalla città tuttora in parte occupata dallo Stato islamico. Uno è Batnaya, totalmente abbandonato, ampiamente distrutto, per effetto anche dei combattimenti che ci sono stati tra i peshmerga curdi, che lo hanno liberato dallo Stato Islamico, e gli stessi miliziani. Un altro villaggio che ho visitato è quello di Tellesqof. Questo invece è un villaggio tuttora abitato, anche se molti dei suoi abitanti lo hanno abbandonato per ragioni soprattutto economiche, pratiche. Non è mai stato coinvolto nei combattimenti, ma patisce gravi problemi pratici, perché era ed è tuttora vicino al fronte, quindi è privo di acqua corrente, di energia elettrica… Sappiamo che questi villaggi sono attualmente tenuti dai peshmerga curdi, ma sono nella provincia di Ninive, che è una provincia dell’Iraq, che non è una delle tre che costituisce il Kurdistan iracheno autonomo. Gli stessi cristiani locali fanno capire che non hanno ancora deciso se in futuro accetteranno di restare sotto la regione autonoma curda dell’Iraq o se tornare nello Stato iracheno.

D. – Sei riuscito a parlare con qualcuno?

R. – Loro hanno patito questi drammi, sono dovuti fuggire davanti all’avanzata dello Stato Islamico, che ha devastato, saccheggiato, profanato chiese. Abbiamo visto una statua della Madonna decapitata, un quadro con l’effige di Gesù deturpato… Ma questa popolazione con dignità continua a vivere: non smette mai, in nessuna condizione, di vivere e di lavorare, ma naturalmente i problemi materiali sono enormi, oltre quelli economici. Il patriarca Sako ha rivolto un appello alla diaspora caldea, affinché contribuisca finanziariamente a sostenere le spese per la ricostruzione materiale o per finanziare lo stabilimento di servizi essenziali e favorire, quindi, la permanenza di queste comunità nelle loro terre o un ritorno addirittura di chi le ha lasciate.

D. – Anche la popolazione musulmana sta vivendo il dramma di questo conflitto...

R. - Sì, certamente. Lo sta vivendo e rischia di viverlo forse ancor di più. E questo è quello che mi hanno detto, sia il patriarca Sako, quanto il Gran Mufti dell’Iraq, la massima autorità dei musulmani sunniti. Entrambi temono che, dopo la completa sconfitta dello Stato Islamico, si scatenino ancora più feroci vendette reciproche, soprattutto tra sunniti e sciiti. Temono tutti questa guerra civile tra sciiti e sunniti. Il governo ha detto che ha piani ben precisi per garantire non solo l’unità del Paese, ma anche la pacifica convivenza tra tutte le comunità religiose e le etnie come è successo per secoli in quel Paese.

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Save the Children: le "ferite invisibili" dei bimbi siriani

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In Siria, quasi sei milioni di bambini vivono ancora sotto i bombardamenti, un bambino su quattro rischia conseguenze devastanti sulla salute mentale. Sono solo alcuni dei terribili dati contenuti nel rapporto “Ferite invisibili” della organizzazione Save The Children, a sei anni dall’inizio della guerra nel Paese. Francesca Sabatinelli

Per molti di loro, si parla di tre milioni, non esiste altro che la guerra. Sono tutti quei piccoli che, nati negli ultimi sei anni, hanno vissuto solo le bombe. Si calcola che un bambino su quattro soffra conseguenze devastanti del conflitto sulla salute mentale: hanno visto uccidere i loro genitori o i loro familiari, hanno perso la casa, vivono la fame. Valerio Neri, direttore generale di Save The Children Italia:

“Da zero a sei anni, l’età fondamentale per costituire la persona adulta che poi sarà nel futuro, questi ragazzi non hanno visto altro che guerra. Questo ovviamente fa sì che queste persone abbiano un comportamento, una psicologia veramente traumatizzata, dall’inizio. I genitori o li hanno persi o hanno perso dei parenti o hanno visto i genitori sempre terrorizzati, parlare solo di stragi, di bombe, di guerra. Sono stati sei anni sotto i bombardamenti! Oppure, quelli che sono riusciti a fuggire con i genitori, che oggi si trovano nei grandi campi profughi, non hanno visto altro che la fuga dei genitori e dei parenti, lo sradicamento delle loro famiglie. Il tasso di suicidi tra gli adolescenti sta aumentando notevolmente, negli ospedali ci dicono che arrivano bambini o ragazzi che si sono feriti da soli con gesti di autolesionismo. Insomma, una situazione che i numeri non possono rappresentare”.

Ci sono ragazzi che fanno uso di droghe, che assumono alcool, piccoli che hanno smesso di parlare, che vivono paralisi temporanee degli arti, che non si addormentano per la paura di non svegliarsi più. Ci sono gli stupri e le spose bambine, date a mariti molto più grandi di loro che però potrebbero salvarle, e ci sono coloro che avendo conosciuto solo la violenza, alla fine vi cedono:

“Molti di loro finiscono anche per essere arruolati dalle bande, dagli eserciti che si contrappongono. Arruolati come giovani soldati, e quindi fino a usare anche loro stessi violenza su altri, oppure, se ancora molto bambini, per i vari servizi di cui la truppa ha bisogno, come portare messaggi, portare da mangiare, andare a prendere l’acqua o le munizioni. Sappiamo poi che le violenze sulle bambine, violenze sessuali, sono ovviamente aumentate. Quindi bambini maschi che subiscono violenze e quindi diventano violenti a loro volta e bambine che invece subiscono violenze sessuali”.

A tutto questo si aggiunge la grande paura di questi bambini e adolescenti per la mancanza di istruzione. Sono migliaia le scuole danneggiate o trasformate in rifugio, spesso gli edifici ancora in piedi diventano un bersaglio, inoltre molti degli insegnanti sono fuggiti:

“In generale, in tutti gli scenari di emergenza al mondo, qualsiasi emergenza, tanto più la guerra, la scuola per i bambini rappresenta anche una normalità: si ritrovano con i loro pari, hanno un adulto di riferimento che non è la famiglia, cominciano a parlare di cose che non sono solo la guerra e il dolore ma sono il futuro. Quindi, di solito, per tutti i bambini, in tutti gli scenari di emergenza, la scuola è un momento di tranquillità, induce la tranquillità. Purtroppo, in Siria, la gran parte delle scuole sono distrutte, come del resto gli ospedali. I bambini non riescono ad andare a scuola, hanno grandi difficoltà a riunirsi per avere un maestro o una maestra che li possa guidare, hanno una mancanza di tipo educativo, quindi quelli che scamperanno all’eccidio non avranno potuto frequentare la scuola a sufficienza per prepararsi al futuro dei prossimi anni”.

La maggior parte di questi bambini vive una condizione di stress tossico, conclude Neri, ma nonostante la loro drammatica situazione psicologica, provano ancora emozioni importanti, non sono desensibilizzati alla violenza, non sono ancora al punto di non ritorno:

“I bambini hanno una capacità di resilienza, di recupero impareggiabile, rispetto agli adulti. Allora, questa è la speranza. Stiamo parlando di giovani generazioni veramente in situazioni drammatiche ma stiamo parlando di persone che, al di là del trauma odierno, probabilmente, conservano in loro, e qualche volta ce ne danno prova, una capacità di ripesa, se solo il mondo li aiutasse a riprendersi. Quindi, non bisogna perdere la speranza, bisogna insistere di porre fine alla guerra perché, in quel caso, io credo che molti di quei ragazzi, oggi molto sofferenti, potrebbero riprendere una strada di fiducia nel futuro, di fiducia in se stessi, di fiducia nel mondo e quindi ripartire per una vita normale”.

La comunità internazionale, dunque, si metta subito in moto per mettere fine al conflitto e per aiutare questi bambini sotto tutti gli aspetti, compreso quello psicologico, in gioco è il presente e soprattutto il futuro.

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Centrafrica, p. Trinchero: protetti in convento cristiani e musulmani

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A poche settimane dalla chiusura del campo di accoglienza di Mpoko all’aeroporto internazionale di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, anche gli sfollati ospitati da oltre tre anni al Convento di Nostra Signora del Monte Carmelo, alla periferia della città, hanno lasciato i loro accampamenti. Un segnale di distensione nel Paese sconvolto da un conflitto scoppiato tra fine 2012 e inizio 2013, con sanguinosi scontri tra milizie Seleka e gruppi anti-Balaka. Nelle ultime settimane, l’Onu, l’Unione Europea, l’Unione Africana e altre organizzazioni internazionali hanno unito la loro voce per denunciare nuove violenze tra gruppi armati locali, mentre la situazione di Bangui fa ben sperare. Al microfono di Giada Aquilino, lo testimonia padre Federico Trinchero, missionario carmelitano scalzo che opera al Convento di Nostra Signora del Monte Carmelo di Bangui, da otto anni in Centrafrica: 

R. – Da ormai più di un anno, a Bangui la situazione è tranquilla, c’è una certa sicurezza. Ci sono stati ancora degli episodi, abbastanza sporadici, che comunque non hanno più degenerato come era successo nel 2013, nel 2014 e quasi per tutto il 2015. Poi, dopo la venuta di Papa Francesco, la situazione è nettamente migliorata. Allora questo nuovo clima, da gennaio ha permesso ai nostri profughi - che erano arrivati nel dicembre 2013 e il cui numero era poi variato, superando anche le 10 mila persone, mentre ultimamente ne erano rimaste ancora 3 mila - di decidere, grazie anche a un piccolissimo incentivo economico, di abbandonare il sito, con coraggio: sono rientrati nei loro quartieri di origine oppure sono andati ad abitare in altre zone dove hanno trovato un’abitazione.

D. – Com’è stato possibile questo trasferimento?

R. – Ogni famiglia ha ricevuto dall’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, con la collaborazione del governo centrafricano e altri partner, una piccola somma per ripartire. In ogni caso, nessuno - questo va detto - è stato obbligato a partire: la gente era contenta di partire, perché comunque nel campo profughi, pur essendo in condizioni di sicurezza, pur essendo organizzato e accanto al Convento, non si poteva andare avanti così, in quelle condizioni igieniche, con le tende di plastica che non erano proprio l’ideale per ripararsi durante le piogge.

D. – Esattamente dove si trovava il sito?

R. – Il nostro Convento si trova alla periferia di Bangui; abbiamo una grande concessione di terra e quindi la gente all’inizio, proprio nella fase più acuta della guerra, era riparata proprio in Convento, in chiesa, nel refettorio, nella sala del capitolo; in seguito le persone si sono stabilizzate attorno al Convento.

D. – Proprio in quei giorni di grande emergenza, la gente come viveva? Cosa raccontava della sua vita strappata alla normalità?

R. – Questa gente è scappata dai quartieri d’origine perché rischiava la vita, perché proprio in quei mesi – dicembre 2013 e gennaio 2014 e ancora un po’ fino a marzo – c’erano combattimenti casa per casa, in cui uccidevano la gente, soprattutto i giovani, gli uomini. Da noi hanno trovato rifugio i cristiani. Abbiamo però accolto anche, un po’ di nascosto, alcune famiglie di musulmani per un certo periodo; però poi loro stessi avevano paura e, quando ci sono stati dei convogli che hanno permesso a queste persone di raggiungere il Ciad o il Nord del Paese, si sono trasferiti.

D. – E’ stato chiuso il campo di Mpoko, all’aeroporto di Bangui; ora i profughi hanno lasciato l’area del Convento. La situazione in città, ha detto, sta tornando pian piano alla normalità. Ma dal resto del Paese che notizie ci sono?

R. – In alcune città nel Nord del Paese e nella parte Est si vivono ancora situazioni di alta tensione e di paura: ci sono città come Bocaranga, Bambari, dove ci sono ancora tensioni, anche tra gli stessi gruppi di ribelli. Perché di per sé la Seleka ufficialmente non esiste più, ma si è divisa in altri gruppi che combattono anche tra loro. Ad esempio, ho saputo che a Bocaranga spesso la notte la gente per paura abbandona la città e va a dormire nella campagna, nella savana.

D. – E’ di questi giorni la denuncia dell’Onu e di altre organizzazioni internazionali contro questi gruppi armati del Paese. Ma la speranza di pace, maturata anche con la visita del Papa nel 2015, oggi quanto è viva?

R. – E’ e deve essere ancora viva. Direi che quello che è stato cominciato da Papa Francesco sta continuando grazie all’opera, al coraggio, alla presenza del cardinale Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui.

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Micronesia, Stato insulare che rischia di scomparire

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Elezioni parlamentari negli Stati Federali della Micronesia, in Oceania. Tutti i candidati sono indipendenti, poiché nel Paese non esistono partiti politici. Tra le priorità di tutti ce n'è una: combattere il riscaldamento globale, causa dell’innalzamento del livello mare, che minaccia l’esistenza stessa dello Stato costituito da oltre 600 isole, in gran parte atolli. Massimiliano Menichetti

Gli Stati Federali della Micronesia sono abitati da oltre 135 mila abitanti, la cui priorità è lottare per la propria esistenza, minacciata non da guerre o terrorismo, ma dall’avanzamento delle acque per effetto dei cambiamenti climatici. Lo scorso anno cinque piccole isole disabitate dell'Oceano Pacifico, di Salomon Island, sono state letteralmente inghiottite dal grande blu che cresce, dal 1994, ad una velocità di 7-10 millimetri all'anno per lo scongelamento dei ghiacciai. La Micronesia, guidata dal 2017, dal presidente Peter Christian, ed altre nazioni insulari, che raggiungono pochi metri sul livello del mare, si sono consociate per far sentire la propria voce e chiedere impegni concreti alla Comunità Internazionale. Andrea Masullo, presidente del comitato scientifico di Greenaccord:

R. – C’è una grande minaccia, soprattutto per quanto riguarda le piccole isole oceaniche che non a caso in questo contesto internazionale si sono organizzate tra di loro, presentandosi con un’unica voce. Se restiamo su questa strada l’innalzamento dei mari potrà raggiungere e superare entro la fine del secolo gli 80 centimetri, e a queste vanno aggiunte le ultime analisi che ci parlano di tempeste oceaniche di inusitata violenza che si verificheranno. Praticamente la vita, in gran parte di queste piccole isole che raccolgono qualche milione di abitanti, diventerebbe impossibile.

Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si' ha ribadito chiaramente che “il clima è un bene comune, di tutti e per tutti” esortando alla tutela e all’impegno. E il 28 novembre scorso, parlando alla plenaria della Pontificia Academia delle Scienze, ha ribadito che spesso la politica ignora gli allarmi degli scienziati:

“La sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza che cercano anzitutto il profitto è dimostrata dalla “distrazione” o dal ritardo nell’applicazione degli accordi mondiali sull’ambiente, nonché dalle continue guerre di predominio mascherate da nobili rivendicazioni, che causano danni sempre più gravi all’ambiente e alla ricchezza morale e culturale dei popoli”.

Dalle recenti conferenze delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Parigi e Marrakesh, le cosiddette COP21 e COP22, è stato intanto confermato l’impegno alla riduzione dei gas serra che scaldano il pianeta. Le lancette in Micronesia, però, corrono più velocemente che altrove e si cercano soluzioni che non escludono “il diritto d’asilo per cambiamento climatico”, invocato per la prima volta tre anni fa nella piccola nazione di Kiribati nei confronti della Nuova Zelanda.

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Trump firma nuovo decreto su immigrazione, escluso l'Iraq

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Il presidente Trump ha firmato ieri il nuovo decreto che sospende per 90 giorni l’emissione di nuovi visti per sei Paesi a maggioranza musulmana, dalla lista iniziale è stato tolto l’Iraq per il sostegno fornito agli Stati Uniti nella lotta al sedicente Stato islamico. Francesca Sabatinelli

Il bando bis è stato varato, l’intento è sempre quello: difendere gli Stati Uniti dalla minaccia terroristica, ma con una novità: l’esclusione dell’Iraq dalla lista iniziale che prevedeva sette Paesi che ora scendono a sei: Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. Il provvedimento entrerà in vigore il 16 marzo e riguarderà chi chiede un nuovo visto. Non molte le differenze con il primo, solo qualche aggiustamento per evitare che le corti federali possano bloccare anche il nuovo.

L’Iraq quindi viene premiato per il suo impegno nella lotta allo Stato islamico, accanto a questo l’altra differenza con il precedente è che gli arrivi dei rifugiati siriani non saranno congelati a tempo indeterminato ma per 120 giorni. Non sarà inoltre colpito chi già ha un visto, la carta verde, chi ha lo status di rifugiato o ha ottenuto l’asilo politico. Restano sulle barricate i democratici per i quali il decreto è “anti-americano” così come per i difensori dei diritti umani.

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Venezuela. Vescovo denuncia: in cerca di cibo nella spazzatura

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L'arcivescovo di Ciudad Bolivar, mons. Ulises Antonio Gutiérrez Reyes, ha lamentato che ogni giorno ci sono sempre più persone che frugano nella spazzatura in cerca di cibo, perché non hanno nulla da mettere sulla loro tavola. "E qui non si parla di senzatetto o di mendicanti, ma di donne, uomini e bambini che vanno nella spazzatura in cerca di cibo" ha detto il presule parlando alla stampa locale e citato dall’Agenzia Fides.

L’arcivescovo ha specificato che non è una situazione di pochi, ma sono centinaia le famiglie a Ciudad Bolivar che non hanno nulla da mangiare. Il salario basso e gli alti costi del cibo non permettono alle famiglie di mangiare regolarmente come dovrebbe essere.

"Di recente ho incontrato un signore che cercava del cibo nella spazzatura, e chiacchierando con lui mi ha detto che lavora, ma il suo stipendio non gli permette di nutrire i figli, e doveva cercare nella spazzatura".

"In arcivescovado ogni giorno arrivano tantissime persone, in cerca di cibo e medicine" ha raccontato, ormai l'arcivescovado è diventato un punto di scambio e di distribuzione di farmaci. Attraverso la Caritas Venezuela finora hanno potuto fare fronte alla mancanza di rimedi sanitari, “ma sono sempre di più quelli in cerca di farmaci, ed è doloroso dire che non ne abbiamo".

Il governo non vuole vedere questa situazione, ha detto l’arcivescovo, mentre la comunità cattolica ha iniziato il Mercoledì delle Ceneri la Campagna "Condividere" destinata a portare alimenti ai più poveri nelle parrocchie: "In una delle nostre parrocchie si distribuiscono fino a 600 pasti al giorno".

In conclusione, mons. Gutierrez ha detto che il popolo venezuelano non si merita di vivere così, essendo un Paese con tante risorse, "credo che questo governo stia amministrando molto male le risorse e le ricchezze del Paese" ha commentato.

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Veglia di preghiera per dj Fabo in chiesa

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Si svolgerà venerdì sera a Milano nella parrocchia di Sant'Ildefonso una veglia di preghiera per Fabiano Antoniani, conosciuto come dj Fabo, morto in Svizzera il 27 febbraio scorso per suicidio assistito. Il servizio di Sergio Centofanti

La parrocchia di Sant’Ildefonso ha accolto il desiderio della madre di Fabo di pregare per il figlio. Non si tratta di un funerale né di una Messa - è stato precisato dalla Curia di Milano - ma di un gesto spirituale con cui la comunità cristiana dice la propria vicinanza al dolore di una madre e a quello di tutti coloro che, senza strumentalizzazioni, hanno amato Fabo, che in questa parrocchia è stato battezzato e ha fatto la Prima Comunione e ricevuto la Cresima.

Sull’eutanasia la posizione della Chiesa non cambia, si ribadisce. Sarà il parroco don Antonio Suighi, a guidare la preghiera. Ci sarà una liturgia della Parola in chiesa, poi il sacerdote terrà una breve meditazione. Sarà solo lui a parlare. Don Antonio non conosceva Fabo. Ha incontrato venerdì scorso per la prima volta la madre che è venuta in parrocchia a chiedere che si pregasse per il figlio.

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Sisma Centro Italia: agricoltori protestano contro la burocrazia

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Troppi ritardi nella ricostruzione dopo il terremoto nel Centro Italia. A denunciarlo è la Coldiretti, che oggi ha portato qualche centinaia di agricoltori e allevatori davanti a Montecitorio. L’organizzazione denuncia che nelle aree rurali terremotate si contano danni diretti ed indiretti per 2,3 miliardi tra strade e infrastrutture, case rurali. Il servizio di Alessandro Guarasci

Quattro regioni dove l’agricoltura è stata messa in ginocchio: Marche, Abruzzo, Umbria e Lazio. Il sisma e il maltempo hanno dato un colpo micidiale. Sono 25 mila le aziende agricole e le stalle nei 131 comuni terremotati con 292 mila ettari di terreni agricoli coltivati da imprese per la quasi totalità a gestione familiare. E poi, sfollati 9 animali su 10, oltre diecimila i capi morti. Il presidente della Coldiretti, Roberto Moncalvo:

“E’ l’esempio concreto di come la macchina non stia funzionando. Abbiamo bisogno di risistemare le strade per arrivare nei campi, in vista delle semine primaverili; abbiamo bisogno di dare un rifugio agli animali: nove animali su dieci sono ancora senza ricovero stabile dopo il terremoto; abbiamo bisogno di avere finalmente per tutti gli allevatori le casette che consentano loro di stare vicini ai loro animali. Queste sono le emergenze più grandi che vanno superate. Senza agricoltura, senza cibo e senza turismo quei territori sono destinati a vivere, dopo il dramma del terremoto, il dramma dell’abbandono”.

Nelle Marche sono 337 le stalle o i fienili inagibili, e sono solo 55 le strutture ricostruite o funzionanti. Difficile la situazione ad Arquata, dice un allevatore:

“Ancora non si sa che fine faranno le due-tre tensostrutture che devono essere ultimate. Per quanto riguarda la produzione, sicuramente il fatto che gli allevatori devono sobbarcarsi ogni giorno un viaggio di 140 km per andare ad accudire gli animali, non è una situazione che può perdurare, anche perché le persone vogliono stare vicine ai propri animali, e giustamente”.

Discorso simile per Abruzzo, Lazio e Umbria, dove tra l’altro rischia di crollare tutta un’economia legata all’enogastronomia. Un coltivatore di Amatrice chiede che si dia un taglio netto alla burocrazia:

“Se almeno riaprissero le strade, se togliessero le macerie, se dessero quel minimo di aiuto, con criterio, non buttando i soldi … Se non avessimo avuto donazioni di privati, noi dove saremmo andati a vivere, soprattutto con i terremoti poi con tutta la neve, con tutto il freddo che abbiamo dovuto superare?”.

Particolare la situazione a Castelluccio di Norcia, famoso per la lenticchia che ha ricevuto riconoscimenti internazionali. Sentiamo uno di questi coltivatori:

“La faccenda è ferma: in questo momento noi dovremmo salire a Castelluccio perché nel mese di marzo si fa la semina per la prossima stagione. Purtroppo, non abbiamo strade per salire a Castelluccio: la strada principale, che è interrotta dal 24 agosto, a oggi è disastrata ma noi in qualche modo dobbiamo salirci. Allora chiediamo alle istituzioni che in qualche modo ci liberino la strada: togliamo qualche sasso, perché almeno i trattori dobbiamo farli salire. La semina intanto comunque dobbiamo farla: se non seminiamo questo, non mangiamo. Lo so, non moriremo di fame, ma ce la passiamo male …”.

Dunque, la politica si sbrighi, agevoli le procedure, perché - esorta Coldiretti - di burocrazia si muore.

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La Chiesa mediale: un libro sulle sfide della comunicazione digitale

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"La Chiesa mediale". E' il titolo del volume pubblicato da don Alessandro Palermo per l'edizioni Paoline, in libreria in questi giorni. Nel volume, il giovane sacerdote - promotore del blog Elementi di pastorale digitale - si sofferma sulle sfide, le strutture e le prassi per la comunicazione digitale. Il libro è corredato dalla prefazione di Don Ivan Maffeis, direttore dell'Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali della CEI e dalla postfazione di Massimiliano Padula, presidente Aiart. Al microfono di Alessandro Gisotti, don Alessandro Palermo si sofferma sugli obiettivi del suo lavoro e sul ruolo di Papa Francesco nello scenario digitale: 

R. – “La Chiesa mediale” prende spunto dal fatto che l’umanità oggi è "mediale". Ormai l’uomo, la donna, la società, hanno a che fare con i media, cioè vivono di media, sono proprio "fatti" anche di media! La loro vita e anche il loro bisogno di comunicare sono sempre legati a un media; e questo quindi rende la comunità mediale. Questa Chiesa, dunque, che è fatta di uomini, è fatta di umanità, è segnata dai bisogni umani anch’essa è mediale.

D. – A livello anche proprio teologico, nella prefazione, don Ivan Maffeis, il portavoce della Cei, sottolinea che la comunicazione è dimensione “costitutiva” dell’essere Chiesa, non è un’appendice: ecco, questo è proprio forse anche un ritornare al senso di qual è la missione della Chiesa, e cioè la comunicazione del Vangelo, l’annuncio della Buona Notizia…

R. – La Cei, come Conferenza episcopale italiana, da anni riflette su queste tematiche. Noi abbiamo qui in Italia una grande sensibilità riguardo alla comunicazione. In quanto Chiesa, è vero: informiamo, facciamo anche notizia; però credo che non dobbiamo dimenticare che il fine della comunicazione ecclesiale, anche di quella ufficiale - quella che ha a che fare con l’ufficio stampa - deve sempre avere a che fare con il Vangelo. Non dobbiamo mai dimenticare che il fine della Chiesa è quello di evangelizzare! Anche attraverso una notizia, la Chiesa deve tentare sempre di presentare la bellezza del Vangelo. E poi quello che dice il Papa, come nel Messaggio per la 51.ma Giornata Mondiale della Comunicazione, è che dobbiamo seminare speranza e fiducia; dobbiamo impegnarci a rendere questa nostra comunicazione un qualcosa che dia speranza e fiducia a questa società che è mediale.

D. – La "Chiesa mediale" si confronta con "l’umanità mediale", una formula coniata da Massimiliano Padula, presidente dell’Aiart, che ha scritto la postfazione di questo libro. Un’umanità mediale che si incontra anche e forse soprattutto sui Social Network. In questo scenario digitale, qual è il contributo che sta dando Papa Francesco, che può essere utile per la Chiesa italiana e non solo?

R. – Il Papa sta testimoniando che, intanto, non possiamo illuderci che una forma comunicativa sia soltanto fatta di Social. È giusto che ci siamo e ci inseriamo in questo contesto; è giusto che comunichiamo attraverso i Social Media, però non dobbiamo mai dimenticare che la comunicazione è fatta anche di sguardo: c’è quella faccia a faccia che dobbiamo sempre tener presente come Chiesa. Credo cioè che questo sia il primo livello che il Papa ci sta testimoniando. Il secondo è che lui, pur essendo non proprio appartenente al mondo giovanile... riesce però a vivere e ad incarnare quelle logiche digitali. Il suo linguaggio, il suo modo di parlare riflette quasi perfettamente le dinamiche dei Social. Ed è anche per questo che lui fa successo sui Social: perché il Papa è un testimone in tutti i sensi! E quando una persona è testimone, quando è sentita dall’altro come una persona affidabile, ecco che sui Social poi diventa il protagonista. Perché in queste dinamiche ciò che conta è l’affidabilità: essere - appunto - affidabili è il primo criterio che ti permette di essere ascoltato nei Social, di far sì che il tuo messaggio sia udibile dagli altri.

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 66

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