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Sommario del 09/03/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa a Die Zeit: preoccupato per i populismi, sono cattivi

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Un’intervista a tutto campo, dai prossimi viaggi ai manifesti che lo criticavano in romanaccio, dalla vicenda dell’Ordine di Malta alla crisi di vocazioni: Papa Francesco ne ha parlato col settimanale tedesco “Die Zeit”. Il servizio di Sergio Centofanti

Idealizzare le persone è forma di aggressione
“Non mi sento un uomo eccezionale” - afferma il Papa rispondendo alla domanda se si senta schiacciato dalle aspettative che in tanti nutrono su di lui – “sono un peccatore”, “un uomo che fa quello che può”, “comune”. Sento che “non mi fanno giustizia con le aspettative”, “esagerano”. “Non si dimentichi - precisa - che l’idealizzazione di una persona è una forma sottile di aggressione” e “quando mi idealizzano mi sento aggredito”.

Capisco se a qualcuno non piace come agisco
Il giornalista gli chiede se gli facciano male gli attacchi che vengono dal Vaticano. “No” risponde Francesco: “Dal momento che sono stato eletto Papa non ho perso la pace. Capisco che a qualcuno non piaccia il mio modo di agire, ma lo giustifico, ci sono tanti modi di pensare, è legittimo ed è anche umano, è una ricchezza”.

Il romanaccio dei manifesti e il senso dell'umorismo
E sui manifesti in romanaccio che lo accusavano di non essere misericordioso, dice che il romanaccio usato “era bellissimo”: però – sottolinea – “non l’ha scritto uno della strada”, ma una persona colta. Riesce a ridere anche di questo, dice il giornalista: e il Papa risponde di sì, ricordando che tutti i giorni prega con la preghiera di San Tommaso Moro per chiedere il senso dell’umorismo. E il Signore gli “dà abbastanza senso dell’umorismo”.

Ordine di Malta
Sulla vicenda dell’Ordine di Malta spiega che c’erano dei problemi che il cardinale Burke “forse non è stato capace di gestire, perché lui non era l’unico protagonista”. Per questo ha nominato un delegato capace di sistemare le cose, una persona “con un carisma che non ha il cardinale Burke”. Ma il porporato – osserva – resta sempre patrono dell’Ordine.

Crisi vocazioni, problema grande
Riguardo alla crisi di vocazioni, il Papa osserva che “è un problema grande” e “grave”. Dove non ci sono sacerdoti manca l’Eucaristia e “una Chiesa senza l‘Eucaristia non ha la forza: la Chiesa fa l’Eucaristia ma l’Eucaristia fa la Chiesa”. Se mancano le vocazioni sacerdotali – rileva – è perché manca la preghiera. C’è anche il problema della bassa natalità. Inoltre è importante il lavoro con i giovani, ma non bisogna cadere nel proselitismo: è importante infatti anche una selezione, perché se non c’è una vera vocazione poi sarà il popolo a soffrire. Comunque – aggiunge – il “celibato opzionale", cioè lasciato alla libera scelta, "non è la soluzione”. Mentre la questione dei “viri probati” è una possibilità, ma poi vanno precisati i compiti che possono assumere per le “comunità isolate”.

La crisi è per crescere nella fede
Alla domanda sui suoi momenti di difficoltà, Francesco ha ribadito di aver avuto “momenti bui“ e anche “momenti vuoti”, che non capiva: “anche situazioni brutte” per colpa sua, di peccato, che lo hanno fatto arrabbiare con Dio. “Io mi arrabbio … e adesso mi sono abituato”, afferma ridendo. Ma il Signore – ha aggiunto – “vuole bene più ai peccatori”. E poi “la crisi è per crescere nella fede. Non si può crescere senza crisi”. “La crisi è parte della vita e una fede che non entra in crisi per crescere, di solito rimane infantile”. Anche Pietro “ha avuto una brutta crisi”, ha rinnegato Gesù … “e l’hanno fatto Papa!”. Il giornalista domanda: e come si torna alla fede? “La fede – risponde - è un dono: te la danno. La chiedo e Lui risponde. Prima o poi, eh? Ma alle volte, tu devi aspettare, in una crisi”.

Non avere paura della verità, le paure chiedono le porte
Sulla ricerca teologica, parla della necessità del metodo storico-critico e di non avere paura della verità storica: “Le paure chiudono le porte. Invece, la libertà apre le porte”.

L’uomo è una bontà ferita, ma la cattiveria uccide
L’uomo è buono o cattivo per natura? “L’uomo è immagine di Dio” – afferma Francesco – “è buono” ma “è stato tentato e si è ferito: è una bontà ferita”, dunque “è debole”. “La cattiveria è un’altra cosa, più brutta”. Per esempio, “Adamo non è stato cattivo: è stato debole, è stato tentato dal diavolo. Invece, la prima cattiveria è quella del figlio, di Caino”: ha ucciso non per debolezza ma “per gelosia, per invidia, per voglia di potere … è la cattiveria delle guerre. E’ la cattiveria che oggi troviamo nella gente che uccide: uccide l’altro”, la cattiveria” di chi fabbrica le armi.

Mi fa male la Chiesa che non è fedele
Si parla dei mafiosi che si fanno la croce prima di ammazzare: “E’ una malattia religiosa” – afferma il Papa – che lo fa arrabbiare. Ma si arrabbia di più – dice – quando la Chiesa “non dà una testimonianza di fedeltà al Vangelo: quello mi fa male”.

Preoccupato per i populismi in Europa
Alla domanda sui populismi di oggi risponde di essere preoccupato, almeno per quelli che si vedono in Europa: dietro – sottolinea - c’è sempre “un messianismo: sempre. E anche una giustificazione”, quella di preservare l’identità di un popolo. Invece, i grandi politici del dopoguerra nel vecchio continente “hanno immaginato l’unità europea”, “una cosa non populista” ma “una fratellanza di tutta l’Europa, dall’Atlantico agli Urali. E questi sono i grandi leader – i grandi leader – che sono capaci di portare avanti il bene del Paese senza essere loro al centro. Senza essere messia: il populismo è cattivo e alla fine finisce male, come ci mostra il secolo scorso” e qui cita Hitler.

La terza guerra mondiale a pezzetti
Il Papa torna a parlare della “terza guerra mondiale a pezzetti”: basta pensare all’Africa, all’Ucraina, all’Asia, al dramma  in Iraq, “alla povera gente che è stata cacciata via”. E’ una guerra che “si fa con le armi moderne e c’è tutta una struttura di fabbricatori di armi che aiuta questo”.

I prossimi viaggi internazionali
Infine, i prossimi viaggi: andrà in India, Bangladesh, Colombia, Fatima, allo studio c’è l’Egitto. Vorrebbe andare in Sud Sudan, ma non crede si possa fare. Erano in programma i due Congo, ma con Kabila non crede di poter andare. E anche in Russia non può andare, perché dovrebbe andare anche in Ucraina.

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Esercizi spirituali, p. Michelini: la morte di Gesù, vera perché scandalosa

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Dalla Croce, Cristo porge il proprio fianco dal quale sgorgheranno acqua e sangue “per il perdono dei peccati”. Questo uno dei passaggi della settima meditazione del padre francescano Giulio Michelini, durante gli esercizi spirituali tenuti al Papa e alla Curia Romana presso la Casa Divin Maestro, ad Ariccia. Il servizio di Giada Aquilino

Uno sguardo di “amore profondo” a Cristo crocifisso. Padre Michelini lo invoca nella riflessione mattutina, soffermandosi sulla morte del Messia nel Vangelo di Matteo. Una morte “reale”, chiarisce subito, non “apparente”:

“Non solo i discepoli stentano a credere che sia tornato in vita, e questo è vero; ma questo è possibile proprio perché Gesù è davvero morto”.

E i dettagli che descrivono la morte di Gesù sono talmente “scomodi”, talmente crudi, come ad esempio il grido dalla croce, che rientrano in quelli che sono soliti essere definiti “criteri di imbarazzo”, che ci portano a dire come tali particolari non possano essere stati creati: sono stati infatti scritti perché dicono realmente “qualcosa di quello che è accaduto”. Innanzitutto, va analizzato “il senso di abbandono che Gesù ha provato sulla croce” - quando pronuncia: “Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato - acuito dall’incomprensione “da parte di chi sta assistendo al cruento spettacolo” della Passione di Cristo. C’è chi, spiega il francescano ripercorrendo i Vangeli sinottici, crede che Gesù chiami Elia:

“Chi poteva essere l’‘Elia’ che invocava Gesù? Certo, il profeta che sarebbe tornato: ma che cosa avrebbe potuto fare? Farlo scendere dalla Croce? O forse, come si diceva – e leggiamo nei Vangeli – Elia è già venuto ed era il Battista? Chiamava forse il suo amico, Gesù, dalla Croce? Evidentemente si tratta di un grande fraintendimento: Gesù non sta chiedendo l’aiuto di Elia e nemmeno quello del Battista; Gesù sta – con un grido – chiamando il Padre. Ma il Padre tace”.

Proprio il fatto che il Padre non intervenga, spiega padre Michelini, è “l’altro elemento imbarazzante di tutto il racconto della morte di Gesù”. Il sentimento che Cristo sta vivendo, il senso di abbandono da parte del Padre è comunque, aggiunge, qualcosa di reale e così “scandaloso” da risultare difficile da “inventare”. Gesù “si lamenta” non perché si senta abbandonato da Dio o per il dolore, ma perché le sue forze fisiche “vengono meno”. Eppure, due Vangeli, quello di Giovanni e quello di Luca, non riportano il grido di Cristo: è – sottolinea il francescano – “troppo scandaloso”. L’“ultima tortura” per Gesù è che non sia compreso “nemmeno dalla Croce”: è, dice padre Michelini, “qualcosa di sconvolgente”, viene “frainteso”. Perché, si chiede il predicatore, ci si fraintende? Ricorre ad un’esperienza personale: il colloquio avuto con una coppia in cui la moglie aveva scoperto il tradimento del marito attraverso i messaggini sul cellulare di lui. Due persone dietro cui “c’era una ferita grande”, l’adulterio: “era quello in fondo - dice padre Michelini - il problema che impediva di comprendersi” a vicenda. Gesù, riflette, quando può, interviene per “spiegare e rispiegare”. Ma dalla croce “non riesce a spiegare più nulla”:

“Naturalmente, noi sappiamo che la Croce spiega tutto. Ma Gesù non può nemmeno più dire perché sta chiamando il Padre e non sta chiamando Elia. Può fare solo una cosa: affidarsi allo Spirito che infatti donerà, perché sia lo Spirito a spiegare quello che non era riuscito a far comprendere. Oppure, dovrà attendere di risorgere e di stare con i suoi discepoli, di intrattenersi a tavola con loro per 40 giorni – dice l’inizio degli Atti degli Apostoli – per accompagnare per mano i discepoli, che non capiscono”.

Padre Michelini ricorda poi che “oltre” a quest’ultima tortura, c’è anche la “lancia del centurione”. E ripropone l’episodio di Cafarnao: un altro centurione “probabilmente armato” si rivolge a Gesù perché affranto dalla malattia di un suo “figlio” o un suo “servo”. E Cristo non gli rifiuta “un gesto d’amore”:

“Ora, secondo alcuni importanti testimoni testuali di Matteo, viene ucciso proprio dal colpo di lancia di un soldato. Gesù porge ai soldati l’altra guancia, come aveva insegnato nel discorso della montagna: al centurione di Cafarnao aveva dato la sua disponibilità. Ora, dalla Croce, può solo porgere il suo fianco dal quale sgorgherà acqua e sangue, per il perdono dei peccati”.

Esamina quindi il Vangelo di Matteo che spiega come il colpo di lancia venga dato “prima” della morte di Gesù e non dopo, come nel Vangelo di Giovanni, anche se - osserva - nella Chiesa alla fine ha prevalso l’interpretazione del quarto Vangelo: il colpo di lancia “dopo” la morte del Signore. Infine la meditazione si sofferma sulle donne presenti nella scena della crocifissione. Secondo Matteo, sono “molte”, tra cui Maria “madre di Giacomo e Giuseppe”; per alcuni questa figura è la “madre del Signore”, che è presente “sotto la croce” come nel Vangelo di Giovanni:

“Forse anche qui, come alcuni hanno notato, l’evangelista Matteo – che potrebbe addirittura avere ispirato Giovanni – vuole dire che Lei c’è, ma in un modo molto obliquo, addirittura con una sottolineatura, una strategia retorica non chiamandola ‘la Madre del Signore’, ma ‘Maria, la madre di Giacomo e di Giuseppe’. Per quale ragione? Qualcuno ha scritto – ed è un’ipotesi interessante – che Maria, la Madre di Gesù, non è più semplicemente lei e Gesù non è più semplicemente il Figlio di Maria. Come poi Maria, nel Vangelo di Giovanni, non sarà più semplicemente la Madre di Gesù, ma la Madre del discepolo amato e quindi Madre della Chiesa. Allo stesso modo Maria, nella Passione di Matteo, c’è e sarebbe però la madre di Giacomo e di Giuseppe, cioè dei suoi fratelli: e quindi anche per noi, per questo Vangelo, la Madre della Chiesa”.

Il francescano invita quindi a chiedersi se, a causa di “chiusure” o per orgoglio, non si capiscano gli altri, non tanto perché le cose che dicono “sono oscure”, ma semplicemente perché “non vogliamo comprendere”. Sollecita poi a cercare di capire se si abbia un “difetto” nella comunicazione con gli altri, esortando a “migliorarla”, crescendo “nell’umiltà”, e se si riesca “a cogliere la presenza di Dio” anche nell’“ordinarietà del quotidiano” o nello “sguardo dell’altro”.

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Nomine

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Per le nomine odierne del Papa, consultare il Bollettino della Sala Stampa vaticana.

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Mons. Tomasi: tra i profughi per portare la vicinanza del Papa

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Un viaggio per portare la vicinanza della Chiesa ai profughi e ai migranti del Medio Oriente. E’ quello che hanno compiuto in questi giorni il cardinale americano Roger Mahony e l’arcivescovo Silvano Maria Tomasi nei campi profughi in Libano, Giordania, Iraq e Grecia. Prima della partenza i due promotori della visita – durata 10 giorni – hanno informato Papa Francesco. Oggi, nella sede della Sezione Migranti e Rifugiati del dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, si è svolto un briefing su questa esperienza. Alessandro Gisotti ha raccolto la testimonianza di mons. Silvano Maria Tomasi: 

R. - È stato un pellegrinaggio umano di incontro con i rifugiati della Siria, le lavoratrici domestiche dall’Etiopia e dalle Filippine, i rifugiati dall’Iraq, specialmente i cristiani della Piana di Ninive. Questi incontri hanno mostrato due cose molto importanti. Primo: le conseguenze umane delle politiche sbagliate che basano la soluzione dei problemi sulla guerra e sulla violenza portano sofferenze umane enormi. Secondo: fa vedere anche che allo stesso tempo ci sono delle persone generose pronte ad aiutare, a dare il meglio di se stesse per fare in modo che queste comunità sradicate dal loro ambiente possano portare avanti una vita che sia il meno difficile possibile.

D. - Questa vostra presenza è un segno anche tangibile dell’azione di Papa Francesco e della Chiesa per andare incontro ai profughi e ai migranti. Come viene percepita  questa attenzione costante del Papa?

R. - Devo dire che dovunque siamo andati cristiani, yazidi, musulmani, sia sunniti che sciiti, quando si cenava, al nome “Papa Francesco”, tutti battevano le mani o dicevano: “Questa è la voce che ci vuole”. Quindi abbiamo ricordato un po’ a questi gruppi in difficoltà che c’è qualcuno che si occupa di loro. Questa azione di solidarietà, mostrata dalla presenza delle organizzazioni cattoliche è una galassia di forze ispirate dal Vangelo che cercano di dare una risposta alle esigenze e alle sofferenze di queste persone sull’esempio e sull’insegnamento di Papa Francesco.

D. - In Europa come in America si alzano barriere, si ostacola l’arrivo dei profughi e dei migranti …

R. - La nostra visita ha voluto essere un messaggio di speranza: non dobbiamo avere paura del nostro fratello che soffre ma, soprattutto, dobbiamo andare alla radice di questi problemi! L’Unione Europea, gli Stati Uniti e altri Paesi sono generosi, danno centinaia di milioni di dollari per l’aiuto umanitario a queste persone. Però davanti alla realtà che abbiamo sperimentato e alle sofferenze, al dolore di queste persone, viene da domandarci se non sia più saggio non causare questi flussi di rifugiati con politiche egemoniche e di potere, e rispondere invece ai problemi che ci sono con il dialogo e con il negoziato. Quindi, piuttosto che dare un’elemosina per rimediare le conseguenze cattive di queste politiche, è meglio usare con saggezza il potere pubblico per non fare delle scelte sbagliate che usano la violenza come mezzo di soluzione del problema.

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Oggi in Primo Piano



Siria: marines verso Raqqa per offensiva finale contro l'Is

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In Siria, almeno 23 civili sono morti nelle ultime ore per i raid aerei che – secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani – sarebbero stati compiuti dalla coalizione internazionale a guida Usa su Raqqa, città che l'Is ha dichiarato propria capitale. Intanto si profila un nuovo round di negoziati a Ginevra: l'inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Staffan De Mistura, ipotizza la data del 23 marzo. L’obiettivo questa volta non è solo lo stop temporaneo delle armi, ma un accordo per una transizione che metta fine alla guerra, attraverso il confronto sulla governance, la nuova costituzione, le elezioni e la lotta al terrorismo. In questo scenario i marines statunitensi sono arrivati nel Paese per lanciare, insieme alle forze di opposizione locali, una massiccia offensiva su Raqqa. Sulla situazione siriana e il nuovo round di colloqui di Ginevra, Massimiliano Menichetti raccolto il commento del prof. Andrea Ungari, docente di Storia e teoria dei Movimenti politici all'Università Luiss: 

R. – Sarei un po’ cauto su questo nuovo round di negoziati, questo “Ginevra 5”, visto i fallimenti anche recenti a stretto giro degli altri due appuntamenti, quello di febbraio e quello di gennaio. È il caso di ricordare, come i colloqui di pace di Astana, non abbiano prodotto nulla e i protagonisti – Russia, Iran e Turchia – non erano stati capaci di dare vita a un documento ufficiale comune sugli obiettivi raggiunti. Quindi sicuramente va apprezzato il tentativo di Staffan de Mistura di arrivare a un nuovo appuntamento tra le forze che sono presenti sul territorio. La situazione sicuramente è cambiata anche nelle ultime ore; non credo però siano cambiamenti tali da portare nel giro di breve tempo ad una soluzione pacifica degli avvenimenti.

D. - Qual è allora la prospettiva?

R. - Si delinea una situazione che abbiamo visto ripetersi anche in altri contesti come il Libano o contesti africani come il Mozambico. Quando le forze politiche e militari in competizione sul territorio saranno arrivate allo stremo, allora, forse, si riuscirà ad arrivare ad un accordo di carattere diplomatico.

D. - Dunque siamo lontani da quello che propone l’Onu, ovvero affrontare i temi della governance, la nuova costituzione, le elezioni e la lotta al terrorismo per la pace in Siria …

R. - Sono molto perplesso dal momento che non si riesce ad imporre neanche un cessate il fuoco, non si riesce ad imporre neanche il rispetto della popolazione civile né a determinare e creare nuovi corridoi umanitari. È un Paese ancora in guerra, profondamente diviso e che ancora non riesce a trovare una soluzione alle proprie questioni. Fra l'altro, resta un grosso punto interrogativo, quello dell’atteggiamento della nuova America di Trump che ancora non ha preso una posizione netta nei confronti del conflitto siriano.

D. - Però i marines sono arrivati in Siria per l’avanzata su Raqqa, considerata dal sedicente Stato islamico la propria capitale. Qual è in questo momento il ruolo, secondo lei?

R. - È probabile da parte della nuova amministrazione Trump, che ha già dato ampi segnali di voler realizzare una distensione su larga scala nei confronti di Mosca, ci sia la volontà di collaborare con la Russia di Putin per risolvere la questione siriana e quindi sconfiggere lo Stato islamico. Quindi è possibile che sul terreno della lotta contro un nemico comune, l’alleanza tra i due Paesi possa sicuramente ritrovarsi, anche rispetto al passato. Certo, sulla definizione chiara e finale della quesitone siriana siamo ancora un po’ lontani anche dall’intravedere quale sia linea politica di Trump; un conto è mandare dei marines per sconfiggere lo Stato islamico che è una minaccia globale, non solo in Siria, un conto è mettersi a tavolino con la Russia, con la Turchia e con l’Iran per decidere qual è il futuro della Siria.

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Gerusalemme. Pizzaballa: incendio a portone chiesa, atto di racket

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Un nuovo gesto vandalico in Terra Santa, dove è stata forzata e bruciata nella notte tra martedì e mercoledi la porta d’ingresso della Chiesa dell’Ascensione, sul Monte degli Ulivi. Ma quali sono le ipotesi investigative sulla natura di questo deprecabile atto? Roberta Gisotti lo ha chiesto a mons. Piebattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato latino di Gerusalemme: 

R. - Chi è stato lo sappiamo. Si tratta di una lite fra due famiglie che probabilmente devono gestire gli ingressi al sito, che durante l’anno è a pagamento e dentro questa lite qualcuno ha appiccato il fuoco. Queste sono le informazioni che abbiamo ma sono ancora parziali e attendiamo che la polizia ci faccia avere notizie più precise al riguardo.

D. – Quindi non sarebbe un atto di tipo religioso?

R. – Indirettamente lo è, ma l’intenzione non era tanto anticristiana quanto sul controllo di quella zona. Siamo più forse nell’ambito del racket… Poi tutto si mischia.

D. - Lei ha inviato di recente una lettera alla sua comunità ecclesiale per l’inizio della Quaresima dove fa un primo bilancio della sua attività nel Patriarcato a circa 6 mesi dal suo arrivo a sanare una situazione delicata. Quali problemi ha incontrato?

R. – Ci sono problemi di carattere amministrativo e finanziario. Devo dire che entrando dentro ho visto con maggiore lucidità e chiarezza l’entità di questi problemi, che non sono piccoli. Allo stesso tempo però devo anche dire che ho incontrato ormai tutti i preti della diocesi uno per uno a casa loro, nelle parrocchie, nelle diverse realtà, e ho visto insieme ai problemi finanziari anche la determinazione da parte di tutti ad affrontare questa situazione e un’assunzione di responsabilità che credo sia importante. Questo fa ben sperare che poco alla volta… naturalmente ci vorranno anni per uscirne…si parla di debiti, tanto per essere chiari. Però spero che, una volta ci sia un intento comune e si dovrà stabilire una strategia, se ne possa uscire nel giro di qualche anno.

D. – Lei nella lettera scrive: abbiamo molto da fare, è il momento di iniziare il lavoro di riforma, ricostruzione e rinnovamento in vari settori non solo quello dell’amministrazione…

R.  – Certo, quando si tocca l’amministrazione si tocca un po’ un aspetto centrale della vita perché nell’amministrazione c’è anche il nostro senso di trasparenza, c’è un modo di intendere le attività pastorali. Tutto questo funzionerà se ci sarà una comunione di intenti all’interno di tutta la diocesi.

D. – Questi problemi che si sono creati hanno causato sfiducia da parte dei fedeli rispetto a chi doveva amministrare bene?

R. - Questo è difficile da dire, soprattutto in queste realtà, specie poi quando si parla di soldi ci sono tante voci, tante opinioni. La lettera serviva anche per chiudere il periodo di gossip, le mormorazioni, il chiacchiericcio, per fare un po’ di chiarezza e cominciare a parlarne. Credo che la lettera sia stata apprezzata dalla gente perché almeno hanno avuto una parola chiara. Credo di avere percepito un clima di fiducia, di solidarietà.

D. – Quindi ha trovato verso la sua persona un clima positivo su cui rilanciare le attività pastorali…

R. – Certo. Poi l’unanimità non ci sarà mai, ma i problemi sono chiari, sono seri, quindi ci vorrà molto impegno. Però non sono da solo, c’è gran parte della diocesi che si metterà di buona lena ad affrontare questa situazione.

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Chiesa Filippine ribadisce con forza il suo no alla pena di morte

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Le Filippine si avviano a reintrodurre la pena di morte. Il Congresso dei deputati ha approvato la legge che si applica ai reati legati alla criminalità organizzata e al traffico di droga. Il testo passa ora al Senato. La Chiesa locale, da sempre schierata contro il pugno duro del presidente Duterte per frenare la piaga del narcotraffico, in un appello ha chiesto che la tutela della vita umana prevalga su ogni politica di sicurezza. Sulla linea del capo dello Stato, Giancarlo La Vella ha intervistato padre Gianni Re, missionario del Pime, da anni nelle Filippine: 

R. - Prima ancora di diventare presidente, durante la campagna elettorale, Duterte aveva fatto dei suoi punti forza quello di ristabilire la pena di morte. La cosa che ci ha un po’  sorpreso, in un certo senso positivamente almeno per noi, è che ci sono stati più congressisti che hanno votato contro questa legge di quanti si pensasse. Poi c’è da dire che la normativa è stata molto annacquata: in pratica fino a questo momento l’unico crimine che viene penalizzato è quello del traffico e spaccio di droga; altri crimini, per il momento, sono stati tolti proprio per facilitare l’approvazione della reintroduzione della pena di morte. Adesso la legge deve passare in Senato e probabilmente riusciranno a far passare questa legge, perché il presidente la vuole in modo abbastanza deciso.

D. - La Chiesa si sta schierando contro il pugno duro utilizzato dal presidente per debellare la piaga del narcotraffico …

R. - Sì, all’inizio molto cautamente; adesso con una voce un po’ più forte, specialmente con l’ultima lettera pastorale. Questo è un motivo per cui il presidente era piuttosto contrariato nei confronti dei vescovi e dei sacerdoti, in genere della Chiesa cattolica, perché fin dall’inizio si sapeva che la Chiesa era contraria a questo mondo di affrontare la criminalità.

D. - Sta dando dei risultati questo nuovo atteggiamento nei confronti della criminalità organizzata e del narcotraffico?

R. - Da una parte dicono - però i numeri vengono dalla polizia e dal governo - che è diminuito il numero dei crimini comuni, però è aumentato quello delle persone uccise in modo violento.

D. – Ecco, questa è l’altra faccia della medaglia: persone uccise o addirittura sparite. C’è parte della popolazione che sta reagendo a questo stato di cose?

R. - Ancora molto poco. Un certo numero di intellettuali sta reagendo, puntando sul fatto che, anche in altre nazioni, sia la reintroduzione della pena di morte, che queste uccisioni facili, non hanno risolto il problema della droga o altri problemi legati alla criminalità. Però appunto la gente comune, un po’ per paura e un po’ per mancanza di conoscenza dei fatti, per il momento sembra ancora dare ragione alla posizione del governo. Bisognerà aspettare per vedere se il governo riesce a mantenere le promesse fatte durante la campagna, soprattutto nell’aumentare i salari, le pensioni e altro. Se dovesse riuscire in questa cosa, allora la maggior parte della gente sarà a favore del governo.

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Al via reddito d'inclusione in Italia. Caritas: risultato importante

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In Italia si comincia a parlare di lotta all’esclusione sociale. Il Senato ha approvato in via definitiva il ddl di contrasto alla povertà, che mira a introdurre un reddito di inclusione, un sostegno ai soggetti che vivono in indigenza. Per il ministro del Lavoro Giuliano Poletti saranno raggiunte 400 mila famiglie. Alessandro Guarasci

L’Italia è sempre stata considerata maglia nera in Europa in fatto di strumenti di lotta alla povertà. Gli ultimi dati dell’Istat dicono che nel 2015 le famiglie residenti in condizione di povertà assoluta erano quasi 1 milione e 600 mila e gli individui cinque milioni, il numero più alto dal 2005 a oggi. Con il reddito di inclusione, il governo dà un aiuto a meno la metà di questi, ma comunque prevede fino a 500 euro al mese alle famiglie in condizioni di disagio con limiti diversi a seconda delle difficoltà del nucleo, del numero dei componenti, del reddito e della situazione patrimoniale. Mario Marazziti, presidente della Commissione Affari Sociali della Camera:

“Calcoliamo che in Italia esistono fino a 12 mila misure diverse di integrazione allo stipendio, alla pensione, sussidi comunali, regionali… Per la prima volta nella nostra storia contemporanea siamo riusciti a costruire un percorso che dovrebbe colpire la povertà assoluta in tutte le persone che ne soffrono. Non è semplicemente un’erogazione finanziaria ma è accanto a un percorso di inclusione attiva”.

Dunque, anche un percorso che punti alla formazione, al reinserimento in società. Il governo ha previsto una stanziamento a regime di un miliardo a 600 milioni, mentre per aiutare tutti poveri ne servirebbero sette. Un primo passo, comunque, dice la Caritas. Francesco Marsico dell’area nazionale:

“E’ un processo così impegnativo per un Paese con una finanza pubblica come quella italiana… Indubbiamente è un risultato importante. Quindi avviare un percorso, sicuramente, con risorse inadeguate, però di questa rilevanza, che riguarda non soltanto la spesa pubblica ma anche la capacità dei servizi territoriali, delle comunità territoriali, di fare spazio e dare prospettiva alle famiglie, alle persone povere, diciamo così, se pure siamo in fondo alla classifica stiamo entrando nella classifica dei Paesi che lottano contro la povertà”.

I Cinque Stelle giudicano la misura insufficiente e propongono in alternativa un reddito di cittadinanza, che, secondo loro, andrebbe a coprire tutti i poveri. Ad oggi, un quarto delle famiglie è a rischio povertà, e in indigenza assoluta sono il 17% delle famiglie con cinque o più componenti. Ancora Marsico:

"Soprattutto i centri di ascolti ci segnalano in questi ultimi anni il rischio dell’intrappolamento, vale a dire persone che sono entrate dopo la crisi economica in condizioni di fatica sociale ed economica e che non riescono a uscire. Per questa ragione una norma di questo tipo, una legge di questo tipo è importante perché, ovviamente, i soggetti sociali possono evitare l’interruzione dei legami di solidarietà con le famiglie. Ma evidentemente c’è bisogno di misure strutturali, di una norma che garantisca reddito e presa in carico di queste persone, altrimenti il rischio di una ferita non rimarginata provocata dalla crisi è molto alto".

Certo, nel frattempo si agevolano i milionari che vogliono far rientrare capitali in Italia, con una flat tax da 100 mila euro. Un’iniziativa in contrasto con una vera politica per i poveri? Mario Marazziti:

“Si sta pensando che può essere una misura che riattiva risorse e fa rientrare le risorse in maniera significativa, non come una semplice sanatoria ma in modo poter finalmente rendere l’Italia di nuovo interessante per gli investimenti anche di italiani o esteri che hanno per ora investito fuori”.

Insomma, i criteri di bilancio sono rigidi e forse, attraendo i capitali dei ricchi, si possono trovare risorse anche per i poveri.

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Migliaia i "migranti sanitari" in Italia, in gran parte del Sud

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Un fenomeno fantasma ma che colpisce tanti italiani. E’ quello dei migranti sanitari ovvero di tutte quelle persone che decidono di spostarsi per ricevere cure sanitarie fuori dalla propria Regione. Ogni anno sono 750.000 i ricoveri extraregionali e oltre 600 mila i familiari che accompagnano i pazienti. E’ quanto emerge dal rapporto Censis “Migrare per curarsi” che è stato presentato ieri al Senato. Il servizio di Daniele Gargagliano

In Italia si viaggia anche per curarsi. Li chiamano migranti o pellegrini della salute e di loro si parla poco. Ma sono centinaia di migliaia le persone che ogni anno si spostano dalla propria Regione di residenza per riceve cure e assistenza sanitaria in un’altra. Ogni anno sono 750.000 i pazienti migranti della sanità e circa 640 mila i loro accompagnatori. Un dato preoccupante quello che emerge dalla ricerca “Migrare per curarsi”, realizzata dal Censis su incarico dell’associazione, CasAmica Onlus. Numeri e storie che confermano un trend già rivelato in un’altra ricerca del centro studi realizzata nel 2005 mai pubblicata. Il direttore generale di CasAmica Onlus, Stefano Gastaldi:

"La ricerca ha confermato quello che noi viviamo ogni giorno, soprattutto in riferimento alla fascia che si sposta per necessità dalla propria Regione e alla drammaticità del bisogno che accompagna queste persone. Ed è proprio in questa prospettiva che l’impegno di CasAmica, come quello delle alle altre associazioni, trova il senso più compiuto".

Oltre la metà dei pellegrini della salute si sposta perché ricerca una maggiore qualità del servizio sanitario. Uno su quattro lo fa per motivi pratici logistici, per lo più legati alla conoscenza di un medico o di un infermiere in una struttura lontana da casa. Mentre il 21% migra perché nella propria Regione non è possibile usufruire di certe prestazioni sanitarie, soprattutto cura di tumori e di patologie cardiache, o ancora a causa delle lunghe lista di attesa. Un fenomeno che coinvolge soprattutto i cittadini del Sud, costretti a muoversi dal Centro Italia in su per curarsi. Un flusso di 218.000 ricoveri ogni anno, che si concentra per lo più in vere e proprie capitali della salute. Un paziente su quattro si reca infatti in uno dei dieci ospedali compresi tra il Centro e il Nord Italia. Il Lazio è la Regione che cura più minori di tutti, sono 18.000, più del doppio di qualsiasi altra regione. Il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin:

"Le Regioni del Sud devono puntare a migliorare la qualità delle loro strutture ospedaliere facendo concorsi meritocratici e cercando di portare nelle loro strutture l’organizzazione e i processi organizzativi che caratterizzano le strutture migliori. Intorno a questi centri è molto importante dare ospitalità a quelle famiglie che devono spostarsi, spesso rinunciare al lavoro per cure che durano dei mesi. Questo è davvero prendersi cura degli altri e dei propri pazienti".

I viaggi della salute hanno ripercussioni economiche sul nucleo familiare dei cittadini. Prendiamo i pazienti oncologici, per le loro famiglie i costi da affrontare arrivano sino a 7.000 euro l’anno. Secondo lo studio del Censis, un adulto malato perde 10.000 euro l’anno. Il 20% del campione della ricerca ha dovuto lasciare il proprio posto di lavoro per sottoporsi alle cure, mentre il 2% viene addirittura licenziato. Per questo motivo il volontariato e l’associazionismo affiancano pubblico e privato nell’accoglienza e nel dare un tetto a chi non ha le possibilità economiche. Come spiega la presidente e fondatrice di CasAmica Onlus, Lucia Cagnacci Vedani:

"In fondo quello che ho notato in tutti questi lunghi anni è la serenità che una persona prova quando può donare qualcosa agli altri. Non è nel prendere che si ha la felicità che si trova, veramente, nel donare all’altro. E questo quello che Papa Francesco ci insegna".

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Mons. Iacobone: nella Chiesa serve educarsi alla bellezza

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Al via oggi a Verona e Vicenza un convegno nazionale sul patrimonio religioso culturale da conoscere, conservare e valorizzare. L'evento è promosso dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Santa Maria di Monte Berico”. In un’epoca che ha smarrito il senso del bello, la formazione del clero e degli artisti è prioritaria. Lo spiega uno dei partecipanti, mons. Pasquale Iacobone, responsabile del dipartimento Arte e Fede del Pontificio Consiglio della Cultura che a Verona presenta il progetto “Educarsi alla bellezza” avviato dal dicastero vaticano in collaborazione con la Cei. Paolo Ondarza gli ha chiesto quali sono le finalità del convegno: 

R. – Innanzitutto serve a sensibilizzare l’opinione pubblica su un ambito che spesso viene trascurato o dimenticato: quello dei cosiddetti “beni culturali ecclesiastici”. Il Papa più volte si è soffermato a dire che – pittura, scultura, architettura, musica -  tutto questo fa parte del nostro Dna, come cristiani e come Chiesa.

D. – C’è bisogno oggi di un’educazione, di ripensare ad un approccio nuovo alla bellezza?

R. – Credo di sì. Tutti siamo coinvolti in un dinamismo di formazione e di educazione alla bellezza. Se non siamo più capaci di percepire la bellezza in tutte le sue forme, non saremo neanche più capaci di percepire quella che Benedetto XVI continuamente chiamava la “bellezza del Vangelo”, la “bellezza della fede”, la “bellezza dell’amicizia di Cristo”. Se non si hanno più gli occhi, il cuore, la sensibilità adatte, anche la fede diventa morta, diventa qualcosa di non attraente, prima per noi e poi anche per chi ci sta accanto.

D. – C’è il rischio oggi di confondere ciò che è bello con ciò che non lo è?

R. – La necessità di un’educazione, di una formazione, anche in ambito ecclesiale, è importante, perché viviamo in un momento di estrema confusione, dove il brutto è diventato bello e viceversa. E questo purtroppo anche all’interno delle nostre chiese; il Papa lo ha ricordato: abbiamo bisogno di chiese dove si respiri il senso della bellezza, che siano oasi di bellezza, di pace, di comunione anche nei quartieri di periferia, anche nelle situazioni di degrado. Non siamo più abituati, e tanti media il più delle volte ci invogliano a scegliere le cose più brutte, più degradate, soltanto perché “fanno tendenza”.

D. – E la via della bellezza – la “via pulchritudinis” – è stata indicata da sempre dalla Chiesa come strada da percorrere per conoscere il Bello, e quindi conoscere Cristo, conoscere il Vangelo…

R. – Dovremmo risalire a Paolo VI e a San Giovanni Paolo II per avere tanti riferimenti importanti. Ci sono stati continui appelli agli artisti perché siano testimoni di bellezza e annunciatori di speranza e fiducia in un mondo che sprofonda – purtroppo – nel degrado e nella bruttezza. Solo che gli artisti oggi forse non hanno gli strumenti adeguati per entrare in questa logica, in questa visione. Dobbiamo essere noi, come Chiesa, ad aiutarli, con l’educazione, la formazione, con questo “educarsi” a ritrovare insieme le vie della bellezza.

D. – Particolarmente nel suo intervento al Convegno lei si sofferma sulla continuità che c’è tra i due ultimi Pontificati, quello di Papa Benedetto XVI e quello attuale di Papa Francesco…

R. – C’è una continuità tra Benedetto XVI, che era in qualche maniera anche un artista appassionato di musica, e Papa Francesco che sottolinea continuamente l'unione profonda tra verità, bontà e bellezza. Se si elimina uno di questi tre elementi, il tavolo cade. E quindi è importante che anche la carità sia bella, per ridestare il senso della dignità umana anche in chi sembra, nella sua bruttura – nella sua bruttezza – il più degradato degli uomini. La dignità dell’uomo passa attraverso la bellezza della sua identità e del suo volto.

D. – Alla mancanza di dignità, che talvolta si registra in alcuni contesti del mondo, e –  possiamo dire – alla mancanza di bellezza in tante parti del mondo, corrisponde una sete di bellezza, e quindi un terreno fertile per l’evangelizzazione attraverso il bello?

R. – Io credo di sì: c’è una sete di pace, di speranza. Come ricordava tante volte anche lo stesso Benedetto XVI, speranza e bellezza sono legate indissolubilmente. Se c’è un sogno, un desiderio di bellezza, c’è speranza. Se non si spera più niente di bello per la propria vita, la speranza è morta, e dunque prevale il degrado, l’ingiustizia, il male, dentro e fuori di noi.

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 68

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Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.