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Sommario del 17/03/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa: Gesù ama i confessori che fanno largo uso della misericordia

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I buoni confessori non hanno orari, confessano ogni volta che i fedeli lo chiedono, e sono veri amici di Gesù, che si compiace se fanno largo uso della misericordia: è quanto ha detto il Papa ai partecipanti al corso promosso dalla Penitenzieria Apostolica sulla Confessione. Il servizio di Sergio Centofanti

Quello della Penitenzieria – dice subito il Papa – “è il tipo di Tribunale che mi piace” perché è un “tribunale della misericordia”. Quindi indica tre punti per essere buoni confessori. Innanzitutto bisogna essere veri amici di Gesù, che significa essere immersi nella preghiera. Questo “eviterà quelle asprezze e incomprensioni che, talvolta, si potrebbero generare anche nell’incontro sacramentale”. Gesù – spiega Papa Francesco – “si compiacerà certamente se faremo largo uso della sua misericordia”:

“Un confessore che prega sa bene di essere lui stesso il primo peccatore e il primo perdonato. Non si può perdonare nel Sacramento senza la consapevolezza di essere perdonato prima. E dunque la preghiera è la prima garanzia per evitare ogni atteggiamento di durezza, che inutilmente giudica il peccatore e non il peccato. Nella preghiera è necessario implorare il dono di un cuore ferito, capace di comprendere le ferite altrui e di sanarle con l’olio della misericordia, quello che il buon samaritano versò sulle piaghe di quel malcapitato, per il quale nessuno aveva avuto pietà (cfr Lc 10,34)”.

Secondo punto. Il buon confessore è un uomo dello Spirito, un uomo del discernimento. “Quanto male viene alla Chiesa - esclama il Papa - dalla mancanza di discernimento!”. “Lo Spirito - osserva - permette di immedesimarci” con quanti “si avvicinano al confessionale e di accompagnarli con prudente e maturo discernimento e con vera compassione delle loro sofferenze, causate dalla povertà del peccato”. “Il confessore - precisa - non fa la propria volontà e non insegna una dottrina propria. Egli è chiamato a fare sempre e solo la volontà di Dio, in piena comunione con la Chiesa, della quale è ministro, cioè servo”:

“Il discernimento permette di distinguere sempre, per non confondere, e per non fare mai ‘di tutta l’erba un fascio’. Il discernimento educa lo sguardo e il cuore, permettendo quella delicatezza d’animo tanto necessaria di fronte a chi ci apre il sacrario della propria coscienza per riceverne luce, pace e misericordia”.

Il Papa ricorda che chi si avvicina al confessionale “può provenire dalle più disparate situazioni”, potrebbe avere anche “veri e propri disturbi spirituali” e in questi casi non bisogna “esitare a fare riferimento a coloro che, nella diocesi, sono incaricati di questo delicato e necessario ministero, vale a dire gli esorcisti. Ma questi devono essere scelti con molta cura e molta prudenza".Tuttavia, sottolinea, tali disturbi “possono anche essere in larga parte psichici, e ciò deve essere verificato attraverso una sana collaborazione con le scienze umane”.

Terzo punto, il confessionale è anche un luogo di evangelizzazione e di formazione, perché fa incontrare il vero volto di Dio, che è quello della misericordia. “Nel pur breve dialogo che intesse con il penitente, il confessore è chiamato a discernere che cosa sia più utile e che cosa sia addirittura necessario al cammino spirituale di quel fratello o di quella sorella” e “talvolta si renderà necessario ri-annunciare le più elementari verità di fede”. "Si tratta di un’opera di pronto e intelligente discernimento, che può fare molto bene ai fedeli":

"Il confessore, infatti, è chiamato quotidianamente e recarsi nelle 'periferie del male e del peccato' ... questa è una brutta periferia!  … e la sua opera rappresenta un’autentica priorità pastorale, eh? Confessare è priorità pastorale. Per favore, che non ci siano quei cartelli: 'Si confessa soltanto lunedì, mercoledì da tale ora a tale ora'. Si confessa ogni volta che te lo chiedono. E se tu stai lì pregando, stai con il confessionale aperto, che è il cuore di Dio aperto".

Infine, il Papa ricorda un antico racconto popolare che parla di Pietro, a guardia della porta del Paradiso per vagliare l’ingresso delle anime dei defunti. E la Madonna, quando vede un ladro, “gli fa segnale di nascondersi”. Poi, di notte, lo chiama e lo fa entrare dalla finestra:

“E’ un racconto popolare; ma è tanto bello perdonare con la mamma accanto; perdonare con la Madre. Perché questa donna, quest’uomo che viene al confessionale, ha una madre in cielo che gli aprirà le porte o lo aiuterà al momento di entrare in Cielo. Sempre la Madonna, perché la Madonna anche ci aiuta a noi nell’esercizio della misericordia”.

Poi, dopo la benedizione, Papa Francesco ha concluso tra le risate dei presenti: "Non dite che i ladri vanno in cielo, non dite questo!".

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Altre udienze e nomine

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Per le altre udienze e nomine odierne del Papa, consultare il Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede.

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Cantalamessa: la divinità di Cristo al centro della nostra fede

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Stamattina, nella Cappella Redemptoris Mater, in Vaticano, la seconda predica di Quaresima di padre Raniero Cantalamessa al Papa e alla Curia Romana. Proseguendo nella riflessione sul tema: “Nessuno può dire: ‘Gesù è il Signore! Se non nello Spirito Santo”, il  predicatore della Casa Pontificia ha messo in luce la fede, da sempre, della Chiesa nella divinità di Cristo da cui viene la salvezza e si è interrogato su che cosa questa fede significa per ciascuno di noi. Una sintesi delle sue parole nel servizio di Adriana Masotti

Punto di partenza per la riflessione di Padre Cantalamessa è ciò che recita la professione di fede di Nicea su Cristo. Se la proclamazione: “Credo in un solo Signore Gesù Cristo”, afferma, era sufficiente nell’ambito biblico e giudaico per giustificare il culto di Gesù come Dio, non lo era più all’interno del mondo greco romano che essendo pagano conosceva molti e diversi “signori”. Per questo si rende necessaria un’ aggiunta a quell’articolo del Credo: “nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”. Ma non si tratta di una scoperta, la divinità di Gesù è sempre stata la fede della Chiesa. Quello che fanno i padri del Concilio di Nicea è rimuovere gli ostacoli che ne impedivano il pieno riconoscimento. Ad esempio l’abitudine greca di definire l’essenza divina come ‘ingenerato’,  mentre nella fede cristiana il Figlio è generato dal Padre, oppure la dottrina di una divinità intermedia tra Dio e le creature:

“Volendo racchiudere in una frase il significato perenne della definizione di Nicea, potremmo formularla così: in ogni epoca e cultura, Cristo deve essere proclamato “Dio”, non in una qualche accezione derivata o secondaria, ma nell'accezione più forte che la parola “Dio” ha in tale cultura. È importante sapere cosa motiva Atanasio e gli altri teologi ortodossi nella battaglia, da dove, cioè, viene loro una certezza così assoluta. Non dalla speculazione, ma dalla vita; più precisamente, dalla riflessione sull’esperienza che la Chiesa, grazie all’azione dello Spirito Santo, fa della salvezza in Cristo Gesú”.

La fede dei cristiani, ribadisce padre Cantalamessa, è la divinità di Cristo. Bisogna chiedersi allora che posto occupa Gesù Cristo nella nostra società e nella vita stessa dei cristiani. Da una parte nella nostra cultura molti parlano di Lui, attraverso libri e film:

“Ma se guardiamo all’ambito della fede, al quale egli in primo luogo appartiene, notiamo, al contrario, una inquietante assenza, se non addirittura rifiuto della sua persona. In cosa credono, in realtà, quelli che si definiscono 'credenti' in Europa e altrove? Credono, il più delle volte, nell’esistenza di un Essere supremo, di un Creatore; credono che esiste un 'aldilà'. Questa però è una fede deistica, non ancora una fede cristiana. Diverse indagini sociologiche rilevano questo dato di fatto anche in paesi e regioni di antica tradizione cristiana. Gesù Cristo è in pratica assente in questo tipo di religiosità”.

E’ necessario, afferma il predicatore, ricreare le condizioni per una fede nella divinità di Cristo senza riserve. Gesù ha detto: “Io sono la luce del mondo”, “Io sono la via, la verità e la vita”. Noi, dice padre Cantalamessa, siamo chiamati a dire con umiltà al mondo di oggi: “Quello che voi cercate, andando come a tentoni, noi ve lo annunciamo”. Ma Gesù ha detto anche: “Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete!” Padre Cantalamessa quindi conclude:

“Se non abbiamo mai riflettuto seriamente su quanto siamo fortunati noi che crediamo in Cristo, forse è l’occasione per farlo (...) Perché “beati”, se i cristiani non hanno certo più motivo degli altri di rallegrarsi in questo mondo e anzi in molte regioni della terra sono continuamente esposti alla morte, proprio per la loro fede in Cristo? La risposta ce la da lui stesso: “Perché vedete!”. Perché conoscete il senso della vita e della morte, perché “vostro è il regno dei cieli (…) nel senso che voi ne siete già parte, ne gustate le primizie. Voi avete me! La frase più bella che una sposa può dire allo sposo e viceversa, è: “Mi hai reso felice!” Gesú merita che la sua sposa, la Chiesa, glielo dica dal profondo del cuore. Io glielo dico e invito voi, Venerabili Padri, fratelli e sorelle, a fare altrettanto. Oggi stesso, per non dimenticarcelo. Se poi non sentiamo di poter dire che ci ha fatto felici Gesù, è bene che ci domandiamo: perché, che cosa glielo ha impedito?”.

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Mons. Auza: riaffermare la dignità delle donne sul lavoro

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La comunità internazionale “protegga e riaffermi fortemente la dignità della donna sul posto di lavoro”. È il richiamo levato in questi giorni all’Onu di New York a nome della Santa Sede dall’osservatore permanente, mons. Bernardito Auza. Il presule è intervenuto alla 71.ma sessione della Commissione sullo status delle donne, in corso fino al 24 marzo e dedicata al tema del lavoro femminile “nel mondo che cambia”. Il servizio di Alessandro De Carolis

Colonne ma invisibili. Che svolgono un lavoro che fa risparmiare somme enormi a uno Stato, ma il loro è un non-lavoro – almeno per come il sistema economico lo considera – e dunque lo Stato non le retribuisce perché, di nuovo, non le vede. Oppure sono inserite in un settore lavorativo propriamente inteso ma sono discriminate. Peggio ancora se da quel lavoro dipende la possibilità di integrarsi in un altro Paese.

Donne e lavoro, troppe diseguaglianze
È il mosaico della condizione di tante donne “nel mondo del lavoro che cambia”, come recita il titolo della serie di incontri in programma questa settimana all’Onu sul tema. Il rappresentante vaticano, mons. Auza, parte dall’analisi dell’attuale, uno scenario in cui, dice, si registra una “crescente” precarietà dell’occupazione femminile, con troppe donne lavoratrici spesso “estromesse – elenca – dai sistemi di protezione e di previdenza sociale, trascurate per una promozione”, vittime di differenze retributive “rispetto agli uomini nell’ambito dello stesso lavoro”, oppure “discriminate nelle assunzioni semplicemente a causa della prospettiva di un congedo di maternità o di un congedo esteso destinato alla cura dei figli o dei familiari malati e anziani”.

La cura della famiglia è un lavoro
Invece, sostiene mons. Auza, è proprio in questa “predilezione e dono” tipicamente femminili – il “prendersi cura degli altri” – il cuore della sfida per “governi e datori di lavoro privati” chiamati, afferma l’osservatore della Santa Sede,  a “trovare modi creativi” per permettere alle “madri che lavorano” di non sentirsi “sotto pressione o costrette a sacrificare le proprie capacità materne”. Giacché, puntualizza il presule, “anche se il lavoro non pagato delle donne non è ufficialmente riconosciuto nell'economia formale”, esso “contribuisce non solo allo sviluppo economico di ogni Paese, ma sostiene anche i pilastri fondamentali che governano una società e una nazione” – basterebbe considerare quanto lo Stato dovrebbe “altrimenti spendere per i servizi sociali”.

Rispettare la dignità femminile
Mons. Auza porta l’esempio del “congedo familiare mirato alla crescita dei figli o alla cura di malati e anziani in famiglia”. Concederlo alle donne “è una delle diverse forme di risposta, che può essere ancora più efficace se accompagnata da politiche sociali e strutture di compensazione favorevoli alle donne che si occupano della famiglia stando in casa, con particolare attenzione alle ragazze madri, così come alle donne rifugiate e migranti, che sono in maniera sproporzionata tra le donne più vulnerabili e più povere”. Proprio la dignità di quest’ultime, soggiunge, “deve essere rispettata, i loro diritti umani protetti e promossi e il loro genio femminile affrancato, offrendo loro le migliori opportunità di un lavoro dignitoso”. Dunque, osserva il presule, “è della massima importanza che la comunità internazionale protegga e riaffermi fortemente la dignità della donna sul posto di lavoro, nella famiglia e altrove”, con misure che consentano “l'accesso alle competenze e alla formazione, alla proprietà e al controllo delle risorse produttive” e che, al tempo stesso, mettano “fine a ogni forma di abuso, come pure allo sfruttamento e alla tratta delle donne e delle bambine”.

L’uomo e le responsabilità domestiche
E c’è un richiamo anche alla responsabilità dell’uomo che cambia al pari della condizione del lavoro femminile. Mons. Auza si rifà all’“Amoris laetitia” di Papa Francesco. In un'epoca in cui le donne sono sempre più impegnate in attività professionali, “è possibile, ad esempio, che il modo di essere maschile del marito possa adattarsi con flessibilità – afferma il Papa – alla condizione lavorativa della moglie. Farsi carico di compiti domestici o di alcuni aspetti della crescita dei figli non lo rendono meno maschile, né significano un fallimento, un cedimento o una vergogna. Bisogna aiutare i bambini ad accettare come normali questi sani ‘interscambi’, che non tolgono alcuna dignità alla figura paterna”.

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Parolin ai giornalisti: informazione sia vera, unisca e non divida

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"Vi auguro di trasmettere sempre un'informazione autentica, senza manipolazioni di sorta, promuovendo ciò che unisce più di quel che divide". Con queste parole il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin si è rivolto ieri sera al Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti in occasione dell'inaugurazione della nuova sede dell’Ordine a Roma.

Il segretario di Stato ha denunciato il "rischio di strumentalizzazione delle notizie da parte di un sistema di potere insidioso" e del problema del sensazionalismo e della rapidità a ogni costo che qualche volta porta alla diffamazione e spesso declassa le buone notizie a non notizie". L'invito del cardinale è stato a "costruire ponti di dialogo per contribuire a non allargare l'indifferenza" respingendo "la tentazione di fomentare lo scontro con un linguaggio che esprime violenza e intolleranza".

Il porporato si è espresso anche sulla vista del presidente del Libano MIchel Aoun ieri in Vaticano, sottolineando che il Paese "ha fatto un passo in avanti notevole con l'elezione del nuovo presidente della Repubblica. E soprattutto l'aspetto positivo è quello della ritrovata unità dei cristiani e quindi del loro maggior peso nel Paese. Il presidente Aoun spera che questo possa comportare anche qualche movimento sullo scenario regionale".

 

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Un anno del Papa su Instagram. Ruiz: testimone di misericordia anche nei Social

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Il 19 marzo dell’anno scorso, Papa Francesco apriva il suo account @Franciscus su Instagram, il social network su cui si possono condividere foto e video. Ad un anno di distanza, l’account papale ha oltre 3,5 milioni di follower e ogni settimana le immagini pubblicate sono visualizzate in media da circa 10 milioni di persone. Sull’importanza di questa presenza di Francesco sui Social Network, Alessandro Gisotti ha intervistato il segretario della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede, Lucio Adrian Ruiz, che muove la sua riflessione ritornando all’incontro di Papa Francesco, un anno fa, con il fondatore di Instagram Kevin Systrom: 

R. - Un anno fa stavamo iniziando l’account Instagram. I ricordi sono tanti! E’ stato un tempo molto ricco. Però la cosa più bella di tutte è stata l’incontro con il Santo Padre, quando Kevin Systrom, (co-fondatore di Instagram) è venuto e ha presentato l’idea al Santo Padre, con l’obiettivo principale di poter comunicare un messaggio con l’immagine. Il Santo Padre ha risposto parlando della teologia dell’immagine, come la Chiesa sempre ha vissuto l’immagine come la maniera di essere vicina alla gente e addirittura di fare catechesi. Lui raccontava dei dipinti delle chiese e ha raccontato un’esperienza importante. Ha detto: “E’ talmente importante l’immagine nel mondo che quando io mi avvicino ai bambini, i bambini non vogliono parlare perché sono timidi ma mi portano un’immagine e allora io domando loro: ‘Che significa questa immagine?’ E poi lì si sciolgono e uno li deve fermare perché cominciano a raccontare tante cose di sé ...”. “Il punto di accesso a un dialogo – dice – è l’immagine, quindi questo progetto lo dobbiamo fare”.

D. – Francesco è approdato su Instagram con questo messaggio: “Voglio accompagnarvi nel cammino della misericordia e della tenerezza di Dio”. Vale la pena ricordare che eravamo nel pieno del Giubileo della Misericordia. Ma è possibile portare questa tenerezza di cui parla il Papa anche nei social network?

R. – Assolutamente, sì. Nelle risposte che seguiamo tutti i giorni, anche per dare al Santo Padre una sintesi di quello che milioni di persone scrivono, nei punti più importanti, abbiamo visto come la gente abbia accolto appieno questa idea. Ci colpisce molto come davanti a un messaggio che si vuole trasmettere, quando il Papa ad esempio sta baciando una persona, un malato, lo abbraccia, lo benedice, ci sono espressioni come: “Questo abbraccio è tutto mio… Grazie per questo abbraccio: oggi ne avevo bisogno”. La gente, vedendo il Papa che abbraccia un altro, sente questo abbraccio come suo. E magari c’è gente che sta in ospedale, gente che mai potrà venire a Roma a trovare il Papa e che vive quella piccola espressione digitale come un’esperienza che fa propria.

D. - C’è un’immagine, tra le tante che abbiamo visto in questo anno su Franciscus, che l’ha colpita?

R. – Quando lui prega, perché trasmette questo senso del mistero dell’essere raccolto con Dio: mettere in Internet quel momento profondo crea questa reazione di raccoglimento, di preghiera…. E poi altre immagini che sono molto forti, che toccano molto, sono quando accarezza qualcuno, un anziano, un malato, un bambino: ci sono questi grossi abbracci, che diventano una teologia del corpo fatta e vissuta con semplicità.

D. – Questo Papa genera immagini che toccano la mente e il cuore della gente, anche dei non credenti. A dire il vero, genera immagini anche con le parole: pensiamo alle omelie di Santa Marta. Che lezione offre ai comunicatori, e in particolare proprio ai comunicatori cristiani?

R. – Siamo nella cultura digitale. Come diceva Papa Benedetto, c’è un “continente digitale”, una realtà nella quale dobbiamo entrare e vivere perché, se l’uomo sta lì, la Chiesa non può non esserci e deve esserci nella stessa dinamica con cui i missionari lo facevano quando scoprivano un altro continente, un’altra realtà. Che cosa facevano i missionari? Studiavano la loro cultura, la loro lingua in maniera tale che conoscendole potessero portare loro Gesù. Nella stessa maniera, se noi siamo davanti a una cultura che è digitale con gente che abita in questi ambienti digitali, noi dobbiamo imparare quel linguaggio, fare presente Gesù ma in quella cultura, perché questa è la dinamica della Incarnazione. Il Verbo si fece carne quindi abitò fra noi, prese la cultura di quella epoca, parlò quella lingua … Questo è un dovere della Chiesa: sempre inculturarsi in ogni tempo, anche per dare un messaggio di speranza. Qual è la missione dei comunicatori? Poter trasmettere la speranza del Vangelo pure in questa realtà. La nostra missione è quella; quindi, la prima cosa è conoscere questo linguaggio, questa cultura, queste dinamiche perché non è semplicemente una trasposizione da un mezzo a un altro, non è mettere una parte in un’altra, perché così non funziona, non si può capire, non si può seguire! C’è un linguaggio che gli è proprio e che quindi dobbiamo imparare; c’è una dinamica che gli è propria – e che dobbiamo imparare; imparando, veicolare con questo linguaggio una parola d’amore.

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Oggi in Primo Piano



Ue vara maggiori controlli sui "minerali insanguinati"

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Passo in avanti dell’Unione Europea nel contrasto al finanziamento di gruppi armati tramite il commercio di minerali. Con un regolamento restrittivo sulle importazioni il Parlamento europeo ha reso obbligatorio e trasparente il rapporto con i fornitori e le modalità di controllo sull’ingresso nell’Ue di oro, stagno, tungsteno e tantalio, materie che alimentano l’industria elettronica, automobilistica nonché costruzioni, illuminazioni e gioielleria, ma col sangue di intere popolazioni in tante parti del mondo. Il servizio di Gabriella Ceraso

Sono detti i minerali dei conflitti: stagno, tantalio, tungsteno e oro. L’Unione Europea ne è uno dei più grandi importatori in forma grezza o concentrata, con una percentuale di quasi il 35% del commercio globale. Eppure, dietro c’è il sangue di tante popolazioni africane. Ascoltiamo padre Giulio Albanese, direttore delle Riviste delle Pontificie Opere Missionarie ed esperto di questioni africane:

“Costringe i civili, soprattutto donne, vecchi e bambini, a migrare. Questo implica la perdita dei beni familiari, personali e naturalmente acuisce a dismisura la povertà e dunque l’esclusione sociale. In alcuni casi, i minori vengono utilizzati anche per lo sfruttamento di queste materie prime, con il coinvolgimento diretto di compagnie straniere”.

All’unanimità, con 558 sì, 17 no e 45 astenuti, il Parlamento europeo ha messo un primo argine a questo, nel senso dell’intransigenza: ora c’è l’obbligatorietà  dei controlli imposta ai grandi importatori ed è la cosa più importante, spiega l’eurodeputata Alessia Mosca dei socialisti e democratici, tra i sostenitori del nuovo regolamento:

“Abbiamo fatto una battaglia molto forte: già il fatto di lasciare la volontarietà, come abbiamo visto in passato, non dà gli stessi risultati, quindi ci deve essere una responsabilizzazione di tutti gli anelli della produzione, arrivando fino al fornitore”.

Le aziende importatrici entreranno anche in un registro dell’Unione Europea:

“Significa che c’è una pubblicità, rispetto alle responsabilità che i produttori devono assumere, cioè dev’essere chiaro che il materiale non venga da quei territori identificati come territori di conflitto. Il modo migliore per aggirare, per evitare illegalità è la trasparenza di un processo”.

E’ un primo passo importante ma timido, commenta ancora Giulio Albanese. Resta molto da fare e restano varie incognite: innanzitutto, perché solo quattro materie da controllare e non tutte? E poi, perché solo riguardo i Paesi in guerra? 

“Direi che nella quasi totalità dei Paesi dell’Africa subsahariana ci sono commodities, quindi la verità è che lo sfruttamento delle materie prime avviene anche in Paesi in cui, dal punto di vista formale, c’è la pace. Penso per esempio alla Sierra Leone, tanto per citarne uno, o alla Liberia, per non parlare dell’Angola: poi, comunque, lo sfruttamento delle materie prime spesso è in flagrante violazione del diritto internazionale e dei diritti umani. Sarebbe davvero importante riuscire a definire strategie e tecniche davvero di monitoraggio, una vera governance solidale. E’ importante coinvolgere la società civile. Altrimenti, è inutile nasconderselo: non si tratta di una semplice certificazione, ma di una auto-certificazione. E dunque l’attendibilità di questo processo rischia di essere puramente formale”.

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Tensione Usa-Pyongyang. La Chiesa coreana prega per la pace

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Sale la tensione nella penisola coreana. Il segretario di Stato Usa, Rex Tillerson, in conferenza stampa a Seul ha ribadito che l’opzione militare contro la Corea del Nord è sul tavolo, se il presidente Kim Jong-un continuerà con la minaccia nucleare. In questo contesto questo sabato la Diocesi di Pyongyang celebrerà i 90 anni dalla Fondazione, con una Messa nella cattedrale di Myeongdong, a Seul. L’evento è dedicato a tutti i cattolici della Corea del Nord e sarà presieduto dal card. Andrew Yeom Soo-jung, amministratore apostolico di Pyongyang. Massimiliano Menichetti ha intervistato suor Ausilia Chang, coreana, delle Figlie di Maria Ausiliatrice: 

R. – La Corea del Sud prega costantemente anche per la Chiesa nella parte Nord della penisola. Questo evento commemorativo, in occasione del 90.mo della creazione della diocesi di Pyongyang, è senz’altro un’occasione di vicinanza per i cristiani della Corea del Sud, ma se questo evento fosse anche uno stimolo per la Corea del Nord, affinché ci possa essere uno spiraglio di apertura al cristianesimo, sarebbe una cosa bellissima! Anche perché credo che la ricerca del senso della vita sia presente lì; anzi: può essere ancora più viva lì dove c’è un regime oppressivo.

D. – Lo ricordiamo: non c’è più la possibilità di poter celebrare in Corea del Nord…

R. – No, non abbiamo notizie precise né una corrispondenza con la Corea del Nord. Però in quelle poche occasioni si è visto che i cristiani ci sono, almeno in pectore, hanno mantenuto la fede, anche se apertamente non possono professarla. Nella Corea del Sud c’è una preghiera costante per la riunificazione.

D. – Tante famiglie poi rimangono divise…

R. – Tanti parenti e coppie di sposi sono stati forzatamente separati alla fine della guerra, con l’armistizio. Anche da questo punto di vista, con i rapporti umani interrotti e la pratica della fede oppressa, si è creata una sofferenza enorme… Non possiamo sapere precisamente come vanno le cose, però la preghiera ha il suo effetto. Il Signore può fare quello che noi non possiamo immaginare. Quindi questo momento commemorativo, come dicevo, mi auguro diventi veramente un’occasione per muovere gli animi dei governanti di quella parte.

D. – Lei offre la sua preghiera…

R. – La mia preghiera, unita a quella della diocesi, alla celebrazione commemorativa, con il desiderio che in un futuro non molto lontano ci sia questa apertura al Trascendente, che vuol dire anche libertà religiosa, democrazia. In questo momento la situazione è veramente preoccupante. Tuttavia c’è la speranza, la speranza che non muore mai!

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Siria: ancora raid. Acs: bimbi di Aleppo non hanno latte

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A sei anni dall’inizio del conflitto, è sempre più grave l’emergenza umanitaria in Siria: non cessano le violenze ed è un susseguirsi di accuse e smentite sulle ultime operazioni militari. Il servizio di Giada Aquilino

Oltre 40 persone uccise mentre pregavano in una moschea nel villaggio di al-Jineh, ad una trentina di km da Aleppo. Questo il bilancio di un raid aereo che attivisti e nuclei di primo intervento siriani attribuiscono all’aviazione americana. Anche da parte russa arrivano indicazioni in tal senso. Gli Stati Uniti negano di avere deliberatamente colpito la moschea, parlando di un’operazione contro al-Qaeda nel nord del Paese. Ed è giallo pure sull’abbattimento nei cieli di Palmira di un aereo israeliano, la notte scorsa, da parte dell’esercito siriano, che avrebbe colpito anche un secondo velivolo. Lo Stato ebraico smentisce e annuncia invece di aver utilizzato per la prima volta il sistema di difesa antimissili Arrow-3 per contrastare un razzo lanciato dall'antiaerea di Damasco. In questo quadro, si aggrava la situazione umanitaria di tutta la Siria. Ad Aleppo, in particolare, l’emergenza è per i più piccoli. Al loro fianco, ancora una volta, Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) con il progetto “Una goccia di latte”: la Fondazione pontificia sottolinea infatti che la priorità ora è rappresentata dai bisogni primari. Alessandro Monteduro, direttore di Acs Italia:

R. - Pensare, oggi, di ricostruire ad Aleppo è forse azzardato: Aleppo è una realtà nella quale una grandissima parte della popolazione – si stima tra il 65 e il 70 per cento - ha abbandonato al stessa città nel corso degli anni del conflitto. Per quanto riguarda la comunità cristiana, da 160 mila persone del periodo antecedente la guerra, in questo momento le diocesi locali ci raccontano essere rimasti 35 mila fedeli. La situazione è drammatica, è di uno stato di totale indigenza e povertà. L’80 per cento degli aleppini in questo momento è un rifugiato interno, il 70 per cento vive al di sotto della normale soglia di povertà. In questo quadro, “Aiuto alla Chiesa che soffre” e tutte le altre organizzazioni stiamo dedicando i nostri sforzi – grazie alla generosità dei benefattori – per garantire agli aleppini i bisogni primari e cioè, per cominciare, il latte. I bambini non hanno il latte. Sappiamo bene quanto sia importante per la crescita e lo sviluppo il latte in polvere, il latte speciale per i neonati. Ecco perché abbiamo lanciato questo grande progetto.

D. – In cosa consiste il progetto “Una goccia di latte”, che portate avanti da maggio 2015?

R. – Serve a far giungere a ben 2.850 bambini di Aleppo latte in polvere e latte speciale per neonati; in modo particolare, i neonati interessati sono 250. E’ un progetto che costa 225 mila euro in un anno e che quindi ha bisogno della generosità della nostra comunità.

D. – L’operazione riguarda i neonati, ma anche bambini più grandi?

R. – Riguarda i neonati e riguarda i bambini sotto i 10 anni: i bambini più grandi sono 2.600. E nel titolo c’è tutto: è una “goccia”, ma non possiamo sottrarci all’idea che, anche goccia dopo goccia, aiutiamo una comunità di nostri fratelli nella fede in profonda sofferenza: si tratta di persone che, in quanto povere, non hanno avuto nemmeno la possibilità di abbandonare Aleppo nel corso degli anni del conflitto.

D. – Ci sono casi di bambini feriti o comunque malati, per i quali assumere latte significa di fatto continuare a vivere?

R. – Certamente: lo raccontano tanto i responsabili delle diocesi locali, quanto i medici del posto. Ci sono tantissimi bambini rimasti feriti: il latte è essenziale, il latte è calcio; non si può surrogare il latte con altri prodotti. Dopodiché di bisogni primari ve ne sono altri: noi veniamo fuori da un’altra grande campagna che riguardava il combustibile per il riscaldamento. Però, adesso l’appello che ci arriva dalle diocesi locali - perché “Aiuto alla Chiesa che soffre” non gestisce queste somme che si raccolgono: noi facciamo in modo che siano i vescovi locali a gestirle - è: “Dateci una mano a garantire una crescita sana ai bambini di Aleppo”.

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Vescovi Congo: rinvio elezioni, causa principale della crisi

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Sono 240 i centri d’iscrizione elettorale del Nord-Ubangi, nella Repubblica Democratica del Congo, visitati dai 14 osservatori formati dalla Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale. Lo ha reso noto il secondo segretario generale aggiunto della Cenco, p. André Masinganda, che ha illustrato martedì scorso il rapporto della Missione d’osservazione elettorale della Commissione episcopale Giustizia e Pace (CEJP). Dal 28 aprile al 6 novembre dello scorso anno, hanno ricevuto la visita degli osservatori 240 centri d’iscrizione (il 58,3 per cento; in totale i centri sono 412). Nel rapporto emerge la preoccupazione per le conseguenze che i recenti fatti di cronaca possono provocare sul processo elettorale: “La recrudescenza dell’insicurezza in diversi angoli del Paese rischia di ritardare l’operazione di iscrizione degli elettori – si legge nel documento –. E’ assai urgente che il governo, la Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni) e anche la Monusco collaborino … per dar vita ad un piano di sicurezza nei centri d’iscrizione che si trovano nelle zone interessate da questa situazione”.

Il rinvio delle elezioni e l’attuale crisi politica nel Paese
I vescovi, riferisce Le Potentiel, temono che il rinvio delle elezioni - che erano attese entro dicembre 2016 – costituisca la causa principale della crisi politica che il Paese sta attraversando e che trovi giustificazione nella mancanza di un registro elettorale affidabile e credibile, dato che le liste elettorali non vengono aggiornate dal 2011. Gli osservatori elettorali, riferisce un comunicato pubblicato sul portale della Cenco, hanno comunque riscontrato che nel 99,6 per cento i centri elettorali erano operativi e che i loro punti deboli riguardano in particolare l’educazione civica, l’informazione degli elettori, la sicurezza e la registrazione degli elettori.

Obiettivo della Cenco per la trasparenza nel processo elettorale formare 30 mila osservatori
P. Clément Makiobo, segretario esecutivo della CEJP, ha spiegato che la Conferenza episcopale ha formato 15 mila osservatori e che l’obiettivo e di arrivare a 30 mila. Ha aggiunto, inoltre, che la CEJP sta lavorando al fianco della Ceni e che attraverso la pubblicazione di questo primo rapporto sull’operato degli osservatori elettorali, la Conferenza episcopale nazionale del Congo sta apportando il proprio contributo perché la gente abbia fiducia nel processo elettorale in corso e perché emerga trasparenza.

Il presidente della Ceni ha dichiarato che il registro elettorale sarà pronto entro luglio
“Il popolo ha diritto di sapere se il processo elettorale è valido” ha dichiarato il presule. La Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale ha comunque assicurato il suo supporto al processo elettorale contribuendo all’educazione civica, all’osservazione elettorale e alla prevenzione dei conflitti elettorali. L’obiettivo è che il processo elettorale si svolga serenamente e venga meno la crisi politica. Corneille Nangaa, presidente della Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni), ha affermato che il lavoro della Conferenza episcopale sta contribuendo a dare credibilità alla Ceni, mentre “nemica del processo elettorale è la mancanza di credibilità al processo” stesso. Quanto al registro elettorale, Nangaa ha dichiarato che sarà pronto entro luglio. (A cura di Tiziana Campisi)

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Dalla Cei un milione di euro per il Sud Sudan

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La presidenza della Conferenza episcopale italiana ha destinato un milione di euro, dai fondi dell’8xmille, per fornire assistenza agli sfollati e alle vittime del conflitto che da anni insanguina il Sud Sudan. La somma, attraverso Caritas Italiana, sosterrà interventi di carattere sanitario e nutrizionale di Medici con l’Africa Cuamm, l’ospedale comboniano di Wau e progetti di riabilitazione socio economica della Caritas locale. La Repubblica del Sud Sudan - si ricorda in un comunicato diffuso sul sito della Conferenza episcopale italiana - vive una delle crisi umanitarie più gravi del continente africano a causa del conflitto iniziato nel 2013. Caritas Italiana - si precisa nel documento - renderà conto della gestione della somma stanziata dalla presidenza al responsabile del Servizio per gli interventi caritativi a favore del Terzo Mondo.

Sud Sudan lacerato da guerra e carestia
Secondo stime delle Nazioni Unite, sono circa 100.000 le persone che stanno rischiando di morire di fame. E si teme che lo stesso pericolo possa riguardare prossimamente oltre 5 milioni e mezzo di sud sudanesi. Sono inoltre quasi due milioni le persone in fuga dalla guerra e che necessitano di assistenza umanitaria. Il Sud Sudan è colpito anche da una grave carestia ed è lacerato anche da una gravissima crisi economica. Secondo fonti di stampa, il tasso di inflazione ha superato l’800%. Si registrano rilevanti aumenti dei prezzi dei prodotti alimentari di base. Lo scorso 20 febbraio il governo ha dichiarato lo stato di carestia in varie zone del Paese. (A cura di Amedeo Lomonaco)

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Amazzonia: nuove denunce da parte delle comunità indigene

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Diverse comunità indigene - sotto l’egida della Rete Ecclesiale Pan Amazzonica, Repam - si recheranno in udienza presso la Corte Interamericana dei Diritti Umani a Washington, per presentare 4 casi di violazione dei diritti umani e dei diritti della natura nel territorio amazzonico di Brasile, Ecuador e Perù.

Molteplici rischi legti all'attività mineraria
In Brasile, rappresentanti della comunità contadina di Buriticupù contestano in particolare la concessione di terre per collegamenti ferroviari collegati all’estrazione mineraria, poiché questo compromette la loro vita quotidiana. Dall’Amazzonia ecuadoregna, indigeni e contadini del Tundayne denunciano inoltre l’impatto delle attività di estrazione di oro e rame sui fiumi. Un altro aspetto riguarda l’allontanamento sistematico e forzato delle famiglie dalle loro case. Le comunità indigene Awajún e Wampís del Perù respingono il piano di espropriazioni di una parte del loro territorio. Infine, il popolo indigeno Jaminawa Ararà, dello Stato di Acre nel Nord Est del Brasile, chiede con urgenza la delimitazione dei propri territori per tutelare la sicurezza, in modo da evitare saccheggi o intrusioni nelle loro terre.

La Chiesa difende gli indigeni presso i tribunali internazionali
L’udienza presso la Corte Interamericana rappresenta uno dei passi più importanti compiuti dalla Rete ecclesiale Repam creata dalla Chiesa cattolica per tutelare e salvaguardare le popolazioni più svantaggiate dell’Amazzonia, dove abitano molti popoli indigeni. All’udienza parteciperanno leader indigeni, agenti di pastorale e il vescovo di Huancayo in Perù, mons. Pedro Barreto, gesuita. Si tratta di un presule conosciuto come il “vescovo ecologico” per la sua difesa dei territori indigeni dall’impatto negativo dovuto alle concessioni degli Stati a progetti multinazionali finalizzati all’estrazione mineraria.

Mancano normative e leggi che riconoscano i diritti degli indigeni
La questione del diritto alla terra dei popoli indigeni dell’Amazzonia - si legge nel comunicato stampa diffuso dalla Repam - nasce dalla mancata regolarizzazione e dall’assenza del riconoscimento della proprietà collettiva delle terre. “Il territorio - afferma la Repam - è stato privato della visione integrale di queste popolazioni, dunque dell’aspetto culturale. Della 'cosmovisione' di ogni comunità indigena”. Secondo i difensori dei diritti delle popolazioni autoctone, gli interessi degli Stati per lo sfruttamento delle risorse naturali e l’implementazione di mega progetti di estrazione mineraria hanno sopraffatto i loro doveri e le responsabilità per garantire una vita degna ai propri cittadini. E, in questo caso, si è negata “la partecipazione dei popoli indigeni alle decisioni sull’impatto di queste attività sui loro territori”. (A cura di Alina Tufani)

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Perù: oltre 60 vittime per le inondazioni. Appello dei vescovi

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I vescovi del Perù esprimono, in un messaggio, “vicinanza a tutti i fratelli e sorelle che soffrono per recenti e devastanti fenomeni naturali, “sia per coloro che sono morti sia per coloro che hanno perso tutto quello che avevano”. Secondo fonti di stampa, sono oltre 60 le vittime provocate, nei giorni scorsi, da alluvioni e inondazioni in varie regioni del Paese. Il governo peruviano stima che siano almeno 4 mila gli edifici completamente distrutti. Hanno inoltre subito danni le abitazioni di almeno 18 mila famiglie. Il numero degli sfollati, più di 10 mila, continua a crescere. In mezzo a tutto questo dolore - scrivono i presuli nella nota diffusa ieri e ripresa dal Sir - manteniamo la fede che illumina e dà forza, conserviamo la speranza che nutre la solidarietà, apriamo le porte della carità.

Appello dei vescovi a tutti i peruviani
“Riconosciamo gli sforzi di molte persone di buona volontà e dell’attuale governo - sottolineano i vescovi - per rispondere con la solidarietà a questa emergenza nazionale”. “Rivolgiamo un appello - aggiungono - a tutti i peruviani perché collaborino con aiuti materiali da far giungere nelle zone più colpite del nostro Paese. Noi vescovi del Perù abbiamo indetto per domenica 19 marzo una giornata di preghiera e, allo stesso tempo, ci stiamo adoperando perché i nostri fedeli di tutte le parrocchie e tutti i centri religiosi possano esprimere la propria solidarietà e il loro amore verso Gesù Cristo attraverso l’amore per il fratello che soffre”. (A.L.)

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A Locri la Giornata della memoria delle vittime innocenti di mafia

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“Piena adesione” alla Giornata della memoria che si svolgerà a Locri dal 19 al 21 marzo per le vittime innocenti di mafia. E’ quanto manifestano i vescovi calabresi in un comunicato diffuso al termine della riunione, dal 13 al 15 marzo a Catanzaro, della Conferenza episcopale calabra. La Giornata della memoria, promossa dall’associazione “Libera” è una iniziativa - scrivono i presuli - “davvero significativa per il nostro territorio”.

Tra i temi affrontati la situazione del porto di Gioia Tauro
Durante la riunione i vescovi hanno affrontato diversi temi cruciali, tra cui la questione del sostegno agli organismi assistenziali e la situazione del porto di Gioia Tauro. Nel comunicato, riferendosi proprio allo scalo portuale, i presuli sottolineano in particolare di aver appreso “con sollievo della disponibilità delle parti sociali interessate a sviluppare serenamente la riflessione operata in questi giorni dal prefetto di Reggio Calabria”.

Al centro dei lavori anche i percorsi formativi nei seminari
Nel comunicato - ripreso dal Sir - si ricorda che si è anche affrontato il tema della nuova “Ratio” per i Seminari, il dono della vocazione presbiterale, recentemente promulgata dalla Congregazione del Clero. Il testo - spiegano i presuli - “rinnovando una riflessione sui percorsi formativo, educativo e teologico nei Seminari, ha riscontrato la forte attenzione dei vescovi che si sono soffermati a lungo sul tema, coinvolgendo i rettori dei Seminari maggiori di Reggio Calabria, Catanzaro e Cosenza, invitati per la circostanza”. Durante i lavori, è stata espressa infine anche una “vicinanza, orante e benaugurante, al Santo Padre per il suo quarto anno di Pontificato”. (A.L.)

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 76

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.