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Sommario del 22/03/2017

Il Papa e la Santa Sede

Oggi in Primo Piano

Il Papa e la Santa Sede



Papa: il cristiano semina speranza. Appello a non dimenticare migranti

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Il Signore ci chiede di seminare speranza e consolare i fratelli. Lo ricorda il Papa nella catechesi all’udienza generale di stamani, in Piazza San Pietro. Proseguendo il ciclo sulla speranza cristiana, Francesco sottolinea oggi il suo legame con la perseveranza e la consolazione. E al termine chiede di non dimenticare il dramma dei migranti, che, ha detto, è la tragedia più grande dopo quella della Seconda Guerra Mondiale. Il servizio di Debora Donnini

La perseveranza è la capacità di rimanere fedeli anche quando si vive un peso che sembra insostenibile. La consolazione è quella di mostrare l’azione compassionevole di Dio anche nella sofferenza. Nel brano della Lettera ai Romani proclamato prima della catechesi, San Paolo per spiegare la speranza cristiana, la accosta a questi due atteggiamenti, che, ricorda il Papa, ci vengono trasmessi dalla Parola di Dio. La Parola di Dio alimenta una speranza che si traduce in servizio reciproco:

“La Parola ci rivela che il Signore è davvero ‘il Dio della perseveranza e della consolazione’, che rimane sempre fedele al suo amore per noi, cioè che è perseverante nell’amore con noi, non si stanca di amarci! E’ perseverante: sempre ci ama! E anche si prende cura di noi, ricoprendo le nostre ferite con la carezza della sua bontà e della sua misericordia, cioè ci consola. Non si stanca neanche di consolarci”.

Essere seminatori di speranza e di consolazione
"Noi, che siamo i forti, abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli". Questa espressione di San Paolo, prosegue il Papa, "potrebbe sembrare presuntuosa", ma nella logica del Vangelo è il contrario: la forza non viene da noi, ma dal Signore. E' quindi chi sperimenta la consolazione di Dio, ad essere in grado e in dovere di farsi carico delle fragilità dei più deboli:

“Se noi stiamo vicini al Signore, avremo quella fortezza per essere vicini ai più deboli, ai più bisognosi e consolare loro e dare forza a loro. Questo è quello che significa. Questo noi possiamo farlo senza autocompiacimento, ma sentendoci semplicemente come un ‘canale’ che trasmette i doni del Signore; e così diventa concretamente un ‘seminatore’ di speranza. E’ questo che il Signore chiede a noi, con quella fortezza e quella capacità di consolare e essere seminatori di speranza. E oggi serve seminare speranza, ma non è facile”.

Nella comunità cristiana non ci sono persone di serie A e di serie B
E il frutto di questo stile è una comunità dove non ci sono persone “di serie A”, cioè i forti, e altri di “serie B”, i deboli, ma dove si hanno gli stessi sentimenti “gli uni verso gli altri”: anche chi è forte prima o poi ha bisogno del conforto degli altri, così come chi si trova nella debolezza può dare una mano al fratello in difficoltà:

“Ed è una comunità così che ‘con un solo animo e una voce sola rende gloria a Dio’. Ma tutto questo è possibile se si mette al centro Cristo, la sua Parola, perché Lui è il ‘forte’, Lui è quello che ci dà la fortezza, che ci dà la pazienza, che ci dà la speranza, che ci dà la consolazione. Lui è il ‘fratello forte’ che si prende cura di ognuno di noi: tutti infatti abbiamo bisogno di essere caricati sulle spalle dal Buon Pastore e di sentirci avvolti dal suo sguardo tenero e premuroso”.

Accogliere e integrare i migranti, tragedia più grande dopo Seconda Guerra mondiale
Al termine della catechesi, il Papa ribadisce la sua preoccupazione per il dramma dei migranti. Nel salutare i partecipanti all’incontro per Direttori di Migrantes, li incoraggia a proseguire l'accoglienza e a favorirne l'integrazione, “tenendo conto dei diritti e dei doveri reciproci per chi accoglie e chi è accolto”:

“Non dimentichiamo che questo problema dei rifugiati e dei migranti, oggi è la tragedia più grande dopo quella della Seconda Guerra Mondiale”.

I bagnini italiani donano al Papa mille zainetti per persone bisognose
Francesco saluta anche i ragazzi con sindrome di Down della Diocesi di Ascoli Piceno e i lavoratori del Sindacato Italiano balneari, presenti in circa 1.500 in Piazza San Pietro assieme alle loro famiglie. Tramite l'Elemosineria Apostolica - fanno sapere - hanno consegnato al Papa oltre mille zainetti con prodotti per l'igiene personale da distribuire a persone bisognose e una classica maglietta rossa, simbolo distintivo dei bagnini italiani. 

Le comunità partecipino a "24 ore per il Signore" per riscoprire il Sacramento della Riconciliazione
In conclusione il Papa rivolge, poi, un appello invitando tutte le comunità a vivere con fede l’appuntamento del 23 e 24 marzo per riscoprire il Sacramento della Riconciliazione chiamato “24 ore per il Signore”: l'iniziativa prosegue, dunque, anche dopo il Giubileo della Misericordia e prevede che molte chiese restino aperte ininterrottamente per consentire le confessioni. “Auspico - ha detto il Papa - che anche quest’anno tale momento privilegiato di grazia del cammino quaresimale sia vissuto in tante chiese del mondo per sperimentare l’incontro gioioso con la misericordia del Padre”.

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Giornata mondiale dell’acqua, il Papa: tutelare un bene di tutti

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La “necessità di tutelare l’acqua come bene di tutti, valorizzando anche i suoi significati culturali e religiosi”: ne ha parlato il Papa stamane a margine dell’udienza generale, salutando i partecipanti al Convegno internazionale organizzato dal Pontificio Consiglio per la Cultura, in occasione dell’odierna Giornata mondiale dell’acqua, che sarà ospitato nel pomeriggio all’Augustinianum, con la partecipazione dei cardinali Ravasi e Turkson e dell’arcivescovo Gallagher, insieme a relatori del mondo intero. Il servizio di Roberta Gisotti

“Incoraggio in particolare il vostro sforzo nel campo educativo, con proposte rivolte ai bambini e ai giovani. Grazie per quanto fate, e che Dio vi benedica!”

Così il Papa ai convegnisti e a tutti quanti nel mondo sono dedicati a valorizzare l’acqua come bene comune, diritto condiviso dagli abitanti del Pianeta, ma quanto disatteso se ancora oggi 663 milioni di persone sono prive di acqua potabile in casa e 2,4 miliardi non hanno accesso a servizi igienico-sanitari adeguati e questo causa la morte ogni anno di oltre 300 mila bambini sotto i 5 anni.

Da qui la scelta dell’Onu di dedicare la 25ma Giornata mondiale dell’acqua alle acque reflue, ovvero quelle contaminate da attività domestiche, industriali e agricole, che vanno ridotte, depurate e riutilizzate, secondo l’obiettivo sostenibile fissato nel 2015 dalle Nazioni Unite: “migliorare entro il 2030 la qualità dell’acqua eliminando le discariche, riducendo l’inquinamento e il rilascio di prodotti chimici e scorie pericolose, dimezzando la quantità di acque reflue e aumentando il riciclaggio e il reimpiego sicuro a livello globale”.

Basti dire che nei Paesi dell’Unione Europea vengono trattati e depurati più di 40 miliardi di metri cubi di acque reflue, di cui vengono riusati soltanto 964 milioni di metri cubi. Gli altri 39 miliardi di metri cubi di acqua ripulita finiscono infatti nei fiumi o nei mari senza trovare un nuovo utilizzo umano. Si tratta di passare come nel caso dei rifiuti da una cultura dissennata dello scarto ad una cultura virtuosa del riciclo, valorizzando economicamente anche le acque reflue.

Lo stesso Papa Francesco, il 24 febbraio scorso, paventava “una grande guerra mondiale per l’acqua”, ma pure sottolineava: “ancora non è tardi ma è urgente prendere coscienza del bisogno di acqua e del suo valore essenziale per il bene dell’umanità”.

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Francesco a Milano. Il sindaco Sala: coniugare crescita e solidarietà

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Sabato 25 marzo Papa Francesco sarà a Milano. Subito dopo l’arrivo in aereo a Linate visiterà la periferia sud della città. Alle 10 in Duomo incontrerà i sacerdoti ed i consacrati. Reciterà l’Angelus e benedirà i fedeli in piazza. Poi il pranzo con gli ospiti del carcere di San Vittore. Alle 15 la messa al parco di Monza e alle 17.30 l’incontro con i giovani allo stadio Meazza di Milano. Per rientrare in serata a Roma. Ma quale città incontrerà Papa Francesco? Luca Collodi ne ha parlato con Giuseppe Sala, sindaco di Milano: 

R. – Oggi Milano è una città che non ha rinunciato ad essere competitiva e a promuovere l’economia ma, con la stessa intensità, è anche una Milano solidale. Spero che il Papa lo veda con i suoi occhi e spero anche di avere l’opportunità di mostrargli perché Milano ha fatto grandi passi in avanti in termini di solidarietà.

D. – Milano è il motore economico dell’Italia. Ma è una città che sembra andare a due velocità. Condivide ?

R. – Questo, sì. Obiettivamente Milano ha fatto grandi progressi dal punto di vista dell’economia. Pensiamo al turismo: attualmente mettendo insieme visitatori per business e turismo, Milano ha addirittura superato Roma, e ciò sembra incredibile. Però, c’è il tema delle periferie; è una semplificazione parlare di periferie, ma c’è un tema che è quello di quartieri che vivono un disagio ancora significativo. Ora, la mia Giunta ha messo in campo un piano radicale di intervento. In particolare sulle periferie abbiamo previsto grandi investimenti: certamente, per il ripristino delle case - l’abitare è una cosa importante - ma anche per luoghi di aggregazione, per la socialità… Se non si risolve questo grande tema, tutti i primati di Milano rimarranno un qualcosa che lascerà l’amaro in bocca.

D.  – Quali sono i problemi maggiori per risanare la periferia milanese?

R. – Prima di tutto bisogna partire dalle case. Abbiamo 30 mila appartamenti di proprietà del Comune. E molto spesso, dall’impianto elettrico, agli ascensori, insomma, sono state un po’ trascurate. Bisogna quindi ripartire dal decoro delle case. Ci sono poi quartieri nei quali bisogna portare sistemi di trasporto pubblico per avvicinarli al centro. E poi c’è il tema dei luoghi di aggregazione. Soprattutto gli anziani devono avere luoghi dove possono incontrarsi. Infine, la sicurezza, che non è un tema né di destra, né di sinistra. Occuparsi di sicurezza vuol dire, infatti, pensare alla gente che ha di meno. Tutte queste cose insieme fanno sì che se ci si occupa di una cosa sola è poco. Bisogna occuparsi di tutte.

D. – Milano è terra di immigrazione. Qualche anno fa gli immigrati transitavano per andare in Europa, oggi restano in città…

R. – Milano ha una quantità di immigrati intorno al 19 per cento, il doppio della media italiana. Sono, per essere onesti, anche motore di sviluppo della città. Alcune comunità sono molto integrate. Ora, stiamo fronteggiando un’ondata diversa mossa dal bisogno assoluto di chi scappa dalla guerra o dalla fame. Fino a circa un anno fa, dei migranti che venivano a Milano ne rimaneva solamente un 10 per cento perché poi andavano verso nord – Svizzera, Francia, Germania - o verso ovest in Francia. Oggi è più difficile perchè il 70 per cento chiede di ricevere lo status di rifugiato. Il problema è diventato importante perché innanzitutto c’è un problema di accoglienza immediata, poi dobbiamo occuparci dei minori, dobbiamo farli studiare, dar loro una vita che crei spazi di opportunità. Aggiungo però una cosa: se non troveremo formule per mettere questi migranti in condizioni di lavorare, sarà una battaglia persa. Perché Milano tende sempre la mano e aiuta, ma alla fine è necessario trovare delle soluzioni perché l’integrazione passa attraverso il lavoro.

D. - E’ possibile attrarre le multinazionali ed essere solidali con le persone?

R. - E’ chiaro che oggi Milano è in un momento positivo, fruttuoso. E’ forte perché le sue singole componenti sono forti. Il sistema universitario, con più di 200 mila studenti, di cui il 7, 8 per cento arriva dall’estero; il sistema industriale, della creatività, della moda, il design, la tecnologia… Ma, insieme a tutto ciò, le statistiche ci dicono che un milanese su dieci fa volontariato e questa è una qualità incredibile. Ora, noi pensiamo che la forza della città nasca dalla capacità di integrazione di questi mondi e dalla  capacità di mettere in atto politiche che uniscano il pubblico al privato.

D.  –  Lei personalmente, che cosa si aspetta dalla visita del Papa?

R. - Mi aspetto che questa attenzione agli ultimi - non solo gli ultimi, perché poi le città sono fatte di ultimi, penultimi, terzultimi, c’è una larga scala di bisogni - si immedesimi in quella che è la società milanese. Mi aspetto che poi lasci Milano con la consapevolezza che – ed è proprio la sintesi di tutto – si può essere, anzi si deve essere, competitivi come Milano ma con un grande livello di solidarietà: che questo mix possa funzionare e che Milano possa essere un esempio per altre città.

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Caritas Milano: le Case Bianche attendono con speranza il Papa

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La prima tappa del Papa sabato a Milano, alle 8.30, sarà alle Case Bianche di via Salomone-via Zama. Francesco visiterà due famiglie. Alle 9, sul piazzale, rivolgerà un breve saluto e incontrerà i rappresentanti delle famiglie residenti e di famiglie rom, islamiche, immigrate. Alessandro Guarasci ha sentito Giorgio Sarto, operatore della Caritas a Milano: 

R. - Di attesa ce n’è tanta, perché stiamo parlando di un quartiere popolare che per decenni è stato lontano dai riflettori e dalle attenzioni di chi doveva gestire il lato abitativo e i servizi. Si attende il Papa addirittura quasi fosse il risolutore dei problemi gestionali. Evidentemente il Papa verrà per portare dei messaggi di speranza, di attenzione da parte delle istituzioni per far sì che le persone possano vivere il più dignitosamente possibile e non, come purtroppo succede spesso, in questi tipi di abitazioni.

D. - Ci saranno dei festeggiamenti particolari, una sorta di accoglienza speciale per il Papa?

R. - Ci sarà sicuramente la gioia di poter incontrare il Papa. Come Chiesa naturalmente ci si sta preparando, ci sono stati momenti di preghiera, una compagnia teatrale ha presentato uno spettacolo sulla storia di Papa Bergoglio, avremo un incontro con il giornalista Andrea Tornielli, vaticanista, che ci avvicinerà sempre di più alla presenza, alla figura umana di Papa Bergoglio e poi ci sarà naturalmente nella mattinata del sabato un momento di animazione, nell’attesa della venuta del Papa, con un coro composto da coristi delle parrocchie del nostro decanato e tre testimonianze.

D. - Case Bianche è la periferia di Milano, ma è anche una periferia esistenziale?

R. - È una periferia anche esistenziale come tutte le collocazioni abitative in cui sono concentrati i problemi di fragilità. Sono praticamente i quartieri popolari. Noi diamo una serie di risposte ai bisogni degli anziani. La nostra collocazione si trova proprio all’interno di queste case e quindi è chiaro che non possiamo non ascoltare anche i bisogni non solo degli anziani, ma anche altri tipi di necessità.

D. - I giovani rimangono a Case Bianche oppure vanno via?

R. - I giovani rimangono. Ci sono molte famiglie giovani; questo è comunque un quartiere - seppur piccolo rispetto ad altri quartieri popolari di Milano, sono 477 le famiglie -, però direi che è un bel concentrato di tutte le situazioni di disagio sociale.

D. - C’è stato in questi anni quanto meno l’avvio di un dialogo con le istituzioni per far sì che comunque questo quartiere esca da questo isolamento?

R. - Questo è quello che la popolazione chiede da sempre, da quando è stato edificato questo quartiere nel 1977, per ospitare le famiglie che provenivano dalle cosiddette "Case minime" di una via qui vicina; "Case minime" costruite ancora durante il fascismo. E questo quartiere, in teoria, avrebbe dovuto essere un nuovo luogo dove poter crescere in maniera più dignitosa. Purtroppo è un quartiere praticamente abbandonato da 40 anni. Dal punto di vista manutentivo, il grosso problema è quello della coesione all’interno di questi quartieri, dove purtroppo la mancanza di attenzione e il senso di abbandono hanno creato un divario sempre maggiore tra i giovani e gli anziani, tra gli italiani e gli stranieri, tra chi ha lavoro e chi non lo ha e tra chi paga l’affitto e chi non lo paga.

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Nomine

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Per le nomine odierne del Papa consultare il Bollettino della Sala Stampa vaticana.

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La Chiesa in preghiera per la giornata dei missionari martiri

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Giornata annuale per i missionari martiri, venerdì 24 marzo, nel 37.mo anniversario dell’uccisione del Beato Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador. Tante le iniziative in programma. Per la diocesi di Roma una veglia itinerante e il musical “Romero” al Teatro Vignoli con ingresso gratuito. Obiettivo: non dimenticare chi ha amato fino alla fine. Cecilia Seppia

I martiri vicini e quelli lontani, i martiri dall’eco mondiale come mons. Oscar Arnulfo Romero e quelli meno noti come padre Ragheed Ganni, il giovane sacerdote cattolico caldeo, assassinato a Mosul il 3 giugno del 2007 al termine della Messa, che di certo non cercava la fama dell’eroe mentre continuava a servire Cristo e annunciare il Vangelo ogni giorno, sotto le bombe. Per loro e per i 28 operatori pastorali uccisi lo scorso anno, la Chiesa si ferma con una giornata di preghiera e digiuno. Mons. Paolo Lojudice, vescovo ausiliare della Diocesi di Roma per il Settore Sud e incaricato per le Missioni:

R. - Il martirio non si cerca, il martirio – come dire – è qualcosa che certamente un missionario non solo deve mettere in conto, perché è un po’ un coronamento di una vita cristiana, anche se è duro dirlo, ma è anche un dono che Dio fa. La missione invece va ricercata, va fatta, va portata avanti in tutti i modi e noi come Chiesa di Roma dobbiamo continuamente interrogarci e metterci in moto, da questo punto di vista, affinché non si spenga mai questo anelito missionario che porta le comunità, le persone, noi preti a cercare di portare, di annunciare il Vangelo fino ai confini della terra. La logica è essenzialmente questa: c’è una missione lontana, c’è la missione di tutti i giorni, c’è la missione del nostro tempo, delle nostre città che non è meno impegnativa. Chiunque viva o abbia vissuto entrambe le situazioni, sa che la missione che siamo chiamati tutti noi credenti a vivere lì dove siamo – e quindi noi qui, nella città di Roma – non è meno impegnativa, oggi come oggi, di altre missioni. Certamente è proprio l’insieme, è proprio il mettere insieme i vari aspetti che poi fa venir fuori quell’unico grande cammino dell’unica Chiesa che cerca, con tutti i mezzi e in tutti i modi – direbbe San Paolo: opportuni e inopportuni – di annunciare il Vangelo.

D. – Missionari di un tempo, neanche troppo lontano, come mons. Romero, ma missionari e martiri anche di oggi – pensiamo ai cristiani in Iraq, in Nigeria e alle persecuzioni che subiscono ogni giorno...

R. – Chi ci parla con viva voce da quei luoghi, ci dice che effettivamente proprio la Croce manifesta questa grande opposizione: si muore perché si è cristiani. Il rischio veramente è che a volte non dico ci si dimentichi, ma che si sottolinei o si parli un po’ troppo poco di quello che accade in certe parti del mondo; a volte siamo saturati da immagini o bombardati dalla televisione che porta sugli schermi di tutte le case immagini, situazioni, commenti … Credo che vada anche un po’ recuperato il valore di una preghiera costante che accompagni sempre, da parte di tutte le comunità, chi vive quelle situazioni.

A Roma, una veglia di preghiera itinerante partirà il 23 sera alle 18.00 dalla Basilica dei Santi Quattro Coronati e arriverà a San Bartolomeo all’Isola Tiberina dove tra testimonianze e meditazioni si celebreranno i martiri del 900 e l’eredità che hanno lasciato al mondo. Poi venerdì 24, alle 21 nel Teatro Vignoli della parrocchia di San Leone, andrà in scena il musical “Romero”, ideato da don Luca Pandolfi con la sceneggiatura di Amalia Bonagura.  E’ la storia di un gruppo multiculturale di studenti romani, tra loro anche un giovane immigrato salvadoregno, che decide di realizzare un viaggio nel Salvador sulle tracce di mons. Romero ucciso il 24 marzo del 1980. Emergono così luci e ombre di un Paese bellissimo ma segnato da violenza, narcotraffico, immigrazione  e povertà. Sentiamo don Luca Pandolfi:

R. - La storia di questo musical è una storia che parla di immigrazione, di multiculturalità qui in Italia e quindi forse un messaggio a pensare un’Italia multiculturale, a un’Italia plurale dove tanti giovani – vissuti o nati in Italia, anche se originari da altri Paesi – sono italiani e convivono con molta allegria e molta felicità insieme a tanti altri giovani di origine italiana. Un altro messaggio è invece un messaggio che riguarda il viaggiare: forse è un invito a tutti, giovani e adulti, a conoscere l’altro attraverso il viaggio, però non un viaggio dove andiamo noi ad aiutare, volontari che vanno a fare del bene: no, un viaggio dove si va a farsi aiutare, a farsi aiutare a conoscere una realtà, ad avere delle testimonianze. Ecco, un po’ l’idea di un’Europa che si sposta, un’Italia, gente di Roma che si sposta per andare a incontrare l’America Latina per imparare e non sempre per dare, per aiutare, per insegnare. Romero, io non l’ho mai incontrato, perché Romero l’hanno ucciso 37 anni fa; dicevano che Romero è vivo, è vivo nel suo popolo: ecco, questo è vero. Se uno va lì, incontra chi vive oggi Romero, chi mette in pratica e rende vivo, risorto Romero nella vita di tutti i giorni.

D. - Il tema del viaggio, della fratellanza, dell’integrazione, l’incontro con la colorata e festosa realtà salvadoregna, l’ascolto e la condivisione di tante testimonianze di chi mons. Romero l’aveva conosciuto, si susseguono nel musical tra coloratissimi murales, canzoni e coreografie coinvolgenti riproponendo con forza il messaggio della santità e del martirio capaci di rendere il mondo, un posto migliore...

R. - Loro raccontano di un uomo vicino alla gente; oggi, con una frase di Papa Francesco, si direbbe che era un vescovo che aveva l’odore delle pecore. Proprio questa umanità lo ha messo in contatto con la realtà di questo popolo sofferente e ha deciso di avvicinarsi sempre di più a questo popolo. Quindi, si è schierato dalla parte del popolo, ma perché lo ha frequentato, è stato con loro, e loro si ricordano tutti di questo vescovo che arrivava anche nei villaggi di campagna, parlava con la gente, si metteva ad ascoltare gli anziani: metteva loro in cattedra …

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“Lutero 500 anni dopo": un convegno per rileggere la Riforma

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“Lutero 500 anni dopo. Una rilettura della Riforma luterana nel suo contesto storico ecclesiale”. E’ questo il tema del Convegno Internazionale di Studio organizzato dal Pontificio Comitato di Scienze Storiche, in occasione del V Centenario della Riforma luterana, presentato questa mattina presso la Sala Stampa della Santa Sede. L’incontro inizierà il prossimo 29 marzo e si svolgerà presso l’Istituto di Maria SS.ma Bambina. Il servizio di Marina Tomarro

Capire il faticoso cammino che è stato percorso fino ad ora per avere una nuova prospettiva storico ecclesiale della Riforma luterana. E’ questo l’obiettivo del convegno “Lutero 500 anno dopo”, come ci spiega Padre Bernard Ardura, presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche:

R. – La cosa più importante è vedere che ci sono probabilmente delle riletture che consentono di scoprire che ci sono stati dei malintesi. Questo l’abbiamo già vissuto con le Chiese ortodosse. Ci sono delle realtà, come ad esempio la questione della Dottrina della Giustificazione, che è stata oggetto di un accordo tra le due Chiese, che consente di capire che con parole diverse abbiamo una comunione nella stessa fede. Poi, rimangono altri aspetti: la costituzione stessa della Chiesa, il ruolo del ministero all’interno della Chiesa, dunque della Successione apostolica, il posto dei sacramenti … Sono dunque elementi che rimangono aperti ancora ….

D. - Per capire questa riforma, è necessario però comprendere il periodo storico in cui si è andata ad inserire...

R. – Lutero non arriva in mezzo a una Chiesa completamente da rovesciare; arriva in una Chiesa che è già nella seconda parte del XV secolo e già conosce elementi di riforma, e soprattutto le riforme all’interno degli Ordini religiosi. Poi seguono altri aspetti, che sono anche economici: per esempio, la secolarizzazione di tutti i beni ecclesiastici. Allora, non sono soltanto le questioni teologiche che possono spiegare l’inizio della Riforma luterana. E, certo, l’importante è vedere che questa Chiesa semper reformanda, che deve sempre riformare se stessa, è una Chiesa che era in un processo di riforma.

D. – Quanto è importante oggi anche la vicinanza di Papa Francesco per un dialogo?

R. – Credo sia essenziale, perché il dialogo fra teologi è una cosa, però direi che c’è l’ecumenismo della vita quotidiana: quello che vivono tante comunità. Anche noi, non facciamo ecumenismo, però con gli storici, i teologi che appartengono a diverse Chiese, possiamo fare un po’ di cammino insieme perché per lo storico lo scopo è la ricerca della verità. Quindi, fare una storia assolutamente neutra mi sembra difficile ma bisogna fare una storia onesta, fondata sui documenti. E questo è importante: lo vediamo nei dialoghi che si riesce ad avere in varie parti del mondo.

D. - Oggi si cerca di nuovo un dialogo e un incontro, partendo proprio dai punti in comune nelle fede...

R. – Con le Chiese protestanti abbiamo la fede in Cristo e almeno il sacramento del Battesimo: e questi sono elementi fondamentali. Si vede però che 500 anni di lontananza non possono essere risolti in pochi anni. Abbiamo comunque uno sguardo che mi sembra uno sguardo di carità, uno sguardo reciproco, che vede nell’altro anche qualcuno che è di buona volontà e che cerca di rispondere alla sua professione di fede.

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Oggi in Primo Piano



Anniversario stragi Bruxelles. Juncker: terrore non ha vinto

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"In questa terribile prova, gli europei hanno dichiarato la loro unità nella lotta contro il terrorismo”. Lo ha detto il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker nell'anniversario degli attentati di Bruxelles. Intanto aumentano le misure di sicurezza sui voli aerei. Massimiliano Menichetti

Alle 7.58, per un minuto, il silenzio ha avvolto Bruxelles in memoria degli attentati che un anno fa devastarono la città. Due kamikaze si fecero esplodere all'aeroporto internazionale di Zaventem, morirono in sedici. Poco più tardi alle 9.11 un altro kamikaze ha colpito la metropolitana di Maalbeek uccidendo altre 16 persone. Oltre trecento i feriti delle stragi di matrice jihadista. Oggi tanti i momenti a cui hanno partecipato anche i reali del Belgio, in cui si è ricordato, riflettuto. Il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, ha ribadito che "i terroristi hanno fallito” perché l'Europa ha risposto “all'odio e alla violenza” mostrando “impegno a difendere la democrazia e la convivenza pacifica nella diversità”. Il timore degli attentati però nel sentire comune non abbandona i cittadini di un'Europa, che incrementa le misure per contrastare il terrorismo. Pietro Batacchi, direttore di Rivista Italiana Difesa:

R. – Oggi credo si sia un po’ più sicuri: non dimentichiamoci che in questi due anni l’Unione Europea nel suo complesso e gli Stati che costituiscono l’Unione Europea su un piano più individuale hanno preso una serie di misure e hanno attuato una serie di politiche che hanno garantito l’incremento dei livelli di sicurezza e soprattutto hanno consentito di smantellare diverse cellule e strutture terroristiche attive nel continente. Questo non significa che la minaccia sia evaporata del tutto, ma significa che, rispetto a uno-due anni fa, la situazione della sicurezza è migliore, quantomeno perché c’è una maggiore attenzione nel contrasto del fenomeno terroristico o nel contrasto del fenomeno propagandistico ed estremistico che è pronubo del terrorismo.

D. - In questo contesto Gran Bretagna, Stati Uniti hanno vietato sui voli aerei pc, tablet e alcuni telefonini sulle tratte relative a Turchia, Libano, Giordania, Egitto, Tunisia e Arabia Saudita. Il Canada starebbe valutando se aderire al provvedimento...

R. – Può essere una misura efficace considerando che in passato ci sono stati episodi riconducibili all’assemblamento di ordigni a partire da pc portatili: mi riferisco soprattutto a quanto avvenne l’anno scorso su un volo per la Somalia. Chiaramente, una misura da sola non basta a contrastare il fenomeno, a prevenire eventuali e possibili azioni terroristiche, ma tale misura va inserita in un quadro più ampio, in una strategia più ampia, onnicomprensiva di contrasto al fenomeno terroristico e alle sue modalità di azione. Sempre in passato vanno registrati episodi di miscele esplosive contenute in indumenti intimi o altro: mi riferisco a episodi avvenuti sia in Arabia Saudita, sia su aerei diretti negli Stati Uniti, nel 2010, per cui il fenomeno va visto in tutta la sua ampiezza.

D. - La lotta al terrorismo internazionale di matrice jihadista sembra non avere confini delineati, anche se Iraq e Siria continuano ad essere considerati centri nevralgici del sedicente Stato islamico...

R. – L’attuale situazione sul campo dimostra che lo Stato Islamico, così come lo conoscevamo fino a poco tempo fa, è un attore politico in fase di collasso; lo Stato Islamico sta continuando a perdere terreno sia in Iraq sia in Siria, Mosul è quasi caduta, Raqqa è in pratica sotto assedio, per cui ci sono tutti i presupposti per ritenere lo Stato Islamico una minaccia ormai riportata sotto controllo rispetto a come lo conoscevamo fino a due anni fa,  ovvero come organizzazione territoriale di matrice terroristica. Questo non significa che lo Stato Islamico non costituisca un pericolo e magari più subdolo: è possibile che proprio questo collasso possa portare a colpi di coda sia nella stessa Siria, sia nello stesso Iraq, ma anche qua da noi, in Europa. Però, lo Stato Islamico di Baghdadi del 2015 oggi, fortunatamente, non c’è più.

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Sud Corea: la Park in procura. Nord Corea: fallito test missilistico

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Prosegue la crisi politica in Corea del Sud. L'ex presidente Park, decaduta il 10 marzo con la convalida da parte della Corte costituzionale dell'impeachment, è stata interrogata per 21 ore della procura nell’ambito dell’inchiesta per corruzione. Le indagini coinvolgono anche i grandi gruppi industriali del Paese, come la Samsung, che avrebbero aiutato una consigliera personale della Park. Dell’instabilità di Seul ne approfitta, intanto, la Corea del Nord, che ha effettuato un nuovo test missilistico, questa volta però fallito. Marco Guerra ha intervistato la professoressa Rosella Ideo, storica dell'Asia orientale all'Università di Trieste:

 

R. – Non abbiamo ancora a disposizione gli atti – è chiaro – perché il tutto si è svolto ieri; comunque, i pubblici ministeri hanno messo chiaramente in evidenza la collusione con l’unica persona amica della signora Park, questa  Choi Soon-Sil, che è entrata a pie’ pari nella politica coreana pur non avendone nessun titolo. C’è un’accusa di corruzione, perché questa amica – in carcere, in questo momento, e sotto inchiesta anche lei – ha costretto i grandi conglomerati del Paese a versare milioni di dollari alle sue fondazioni: l’accusa nei confronti della signora Park è di collusione, di avere saputo bene quello che stava facendo questa sua amica e confidente, che si è mescolata non solo negli affari di Stato ma addirittura nelle nomine fatte a livello governativo dalla Park …

D. – Anche l’erede del colosso industriale “Samsung” è finito nelle maglie di questa indagine. I media coreani parlano perfino di inchiesta del secolo. Quali sono le ripercussioni che questa indagine possono avere sulla politica della Corea del Sud, sulla stabilità del Paese?

R. – Occorre, appunto, colmare il vuoto che c’è. Noi siamo in un periodo di stallo totale, in Corea del Sud, perché da dicembre, da quanto il Parlamento ha approvato una mozione di impeachment nei confronti della presidente, siamo in uno stallo completo. Quindi, a partire da quello che la Corte costituzionale ha stabilito – appunto, la colpevolezza della signora Park – da quel momento sono iniziati i 60 giorni che devono trascorrere per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Quindi occorre una persona che sia in grado di ridare credibilità alla politica ed è un momento molto difficile: pare che il vento sia favorevole al Partito democratico, che è il partito progressista e riformista che un paio di giorni fa veniva dato al 49,3%.

D. – Intanto, sono in corso le annuali esercitazioni militari tra Stati Uniti e Corea del Sud. Sul fronte internazionale, le politiche di Seul possono cambiare, con queste indagini?

R - - Direi di sì! Se arriva al potere un presidente progressista e riformista, avrà un atteggiamento molto diverso da quello ambiguo che ha tenuto la signora Park nei confronti della Cina, che è il grande vicino con cui la Corea del Sud deve assolutamente fare i conti; e anche perché gli Stati Uniti già avevano concertato con la Corea della signora Park di mettere in territorio sudcoreano uno scudo antimissile per – dicono gli americani e vi insistono ancora adesso – contrastare la politica di lanci di missili della Corea del Nord. Voglio dire, la Cina ha già messo dei paletti nei confronti della Corea del Sud che ha accettato questo scudo antimissile. E’ una situazione estremamente delicata che si spera l’America riesca a gestire.

D. – Oggi la Corea del Nord ha effettuato un nuovo test missilistico, che però è fallito. La crisi politica del Sud può destabilizzare anche il confronto già teso con Pyongyang?

R. – Più che destabilizzare delle relazioni, che sono davvero ai minimi storici quelle tra le due Coree, questo ha consentito a Kim Jong-un di approfittare di questa finestra di opportunità e di debolezze di carattere istituzionale nei vari Paesi della regione, tranne ovviamente che in Cina, e quindi c’è stata un’accelerazione molto forte di queste dimostrazioni di forza da parte di Pyongyang.

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Sud Corea; dopo impeachment presidente, vescovi esortano all'unità

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"C’è la crisi e c’è la sofferenza. Ma oggi si intravede una nuova speranza per la Corea del Sud. È tempo di lavorare per ristabilire unità e creare un’atmosfera di fratellanza, per costruire il futuro”: è quanto ha affermato mons. Lazzaro You Heung-sik, presidente della Commissione giustizia e pace della Conferenza episcopale coreana, dopo che la Corte costituzionale ha confermato l’impeachment della presidente Park Geun-hye. 

“No” dei cittadini alla corruzione e all’abuso di potere
La popolazione coreana sarà chiamata a eleggere il nuovo presidente della nazione entro due mesi. “Abbiamo visto in questi mesi — ha spiegato a Fides il vescovo — un risveglio della coscienza dei cittadini. Sono stati loro i protagonisti, sono scesi in piazza con candele accese, con veglie pacifiche per dire ‘no’ alla corruzione e all’abuso di potere e per mostrare la loro volontà di costruire il bene comune. Questa grande reazione del popolo, vissuta nella pace e con grande senso civico, mi sembra un aspetto molto positivo in tutta questa dolorosa vicenda”.

I cattolici chiamati ad essere costruttori di giustizia e di pace
La comunità cattolica, ha spiegato il presule, è chiamata ad un passo ulteriore. I coreani hanno manifestato e desiderato giustizia e onestà. I cittadini sono chiamati a dare testimonianza di giustizia e trasparenza nella vita personale. Come cattolici siamo costruttori della giustizia, della pace e del bene comune del Paese. Dicendo ‘no’ alla violenza e all’odio - ha concluso - siamo pronti a dare un contributo per ristabilire un clima di fratellanza e unità, per uscire dalla crisi e guardare al futuro con speranza. Dal male può nascere un bene e, in questa Quaresima, ci prepariamo alla resurrezione della nazione coreana”.

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Filippine, nuovo appello dei vescovi contro la pena di morte

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È inammissibile fare appello alle sacre Scritture per sostenere la legittimità della pena di morte. È quanto sottolinea l’episcopato delle Filippine in una dichiarazione pastorale contro la reintroduzione della pena capitale nella quale i vescovi hanno lanciato un nuovo, accorato appello in difesa della vita. Il messaggio è stato letto, domenica scorsa, in tutte le chiese del Paese. “Non lasciamo – si legge nel documento ripreso dall’Osservatore Romano - che i nostri pozzi vengano avvelenati da un’acqua amara; cerchiamo di difendere la santità della vita e di prendere posizione contro la pena di morte”. “Le vittime e i carnefici – si legge nel messaggio firmato dall’arcivescovo di Lingayen-Dagupan, mons. Socrates B. Villegas, presidente della Conferenza episcopale filippina - sono entrambi nostri fratelli e sorelle”. “La vittima e l’oppressore – aggiungono i presuli - sono entrambi figli di Dio. Per il colpevole offriamo la possibilità di pentirsi e riparare il danno dei loro peccati. Per le vittime, offriamo il nostro amore, la nostra compassione, la nostra speranza”.

Approvata dal Parlamento la proposta per il ripristino della pena di morte
In poco più di 10 anni la posizione delle Filippine sulla pena capitale è radicalmente mutata. Nel 2006 Gloria Macapagal Arroyo firmava la legge per l’abolizione della pena di morte. Dopo pochi giorni da quella ratifica, l’allora presidente del Paese asiatico illustrava, il 26 giugno del 2006 in Vaticano, il provvedimento a Benedetto XVI sottolineando che venivano automaticamente commutati in ergastoli 1.200 sentenze in attesa di esecuzione. Dopo quasi 11 anni, con una schiacciante maggioranza di sì, il Parlamento delle Filippine ha approvato nei giorni scorsi il ripristino della pena capitale per diversi reati. Tra questi lo stupro, l’omicidio e crimini legati all’importazione, alla vendita, alla fabbricazione, alla consegna e alla distribuzione di sostanze stupefacenti. La proposta di legge deve ora essere approvata dal Senato, prima che possa essere firmata e tramutata in legge dal presidente Rodrigo Duterte, favorevole al ripristino della pena di morte. In caso di approvazione, l’opposizione ha già annunciato che ricorrerà alla Corte Suprema.

Contro Duterte richiesta di impeachment e denunce di Ong
Contro il presidente filippino Duterte è stata formalizzata nei giorni scorsi una richiesta di impeachment firmata dal deputato Gary Alejano. Abuso di potere, corruzione e conflitto di interesse sono alcune delle accuse mosse contro il capo di Stato, che oltre a far registrare un rilevante consenso popolare, può anche contare su una solida maggioranza in Parlamento. Nella richiesta di impeachment viene soprattutto denunciato l’impiego di squadre della morte nella lotta contro la criminalità. Da quando, il 30 giugno del 2016, il presidente Duterte è salito al potere, nelle strade delle Filippine – ha inoltre reso noto nei giorni scorsi Amnesty International - ci sono stati più di 8000 morti, molti dei quali a seguito di esecuzioni extragiudiziali nel contesto della cosiddetta “guerra alla droga” proclamata dal presidente filippino. “La 'guerra alla droga' di Duterte – ha affermato poi Peter Bouckaert, direttore della sezione ‘Emergenze’ di Human Rights Watch e autore del recente rapporto “Licenza di uccidere” – dovrebbe essere intesa più propriamente come un crimine contro l'umanità, dato il costante accanimento contro i più poveri. Se da un lato l’indignazione locale unita alle pressioni globali o ad un'inchiesta internazionale porranno fine a questi omicidi, dall’altro si spera che prima o poi i responsabili siano assicurati alla giustizia”.

La campagna #Noiseforlife
Nelle Filippine sono state promosse, recentemente, diverse iniziative contro il ripristino della pena capitale. In particolare, nelle scuole e nelle università cattoliche è stata lanciata la campagna #Noiseforlife. Studenti di centinaia di istituti in tutto il Paese, da Manila a Davao, hanno manifestato pacificamente per ribadire il loro “no” alla reintroduzione della pena di morte. La Chiesa - ha sottolineato infine James Anthony Perez, presidente dell’associazione cattolica Filipinos for Life - ricorda al popolo che prosperità e giustizia si ottengono attraverso il riconoscimento della sacralità della vita umana prima di tutto, non tramite la sua negazione”. (A cura di Amedeo Lomonaco)

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Penisola arabica: denunciati abusi su donne cristiane

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Provengono per la maggior parte da India, Filippine e Nepal, e sono alla ricerca di un impiego sicuro, come baby-sitter o domestiche. Una volta assunte, molti datori di lavoro garantiscono il giorno libero settimanale e permettono loro di andare in chiesa e di far visita agli amici, ma molti altri si comportano da padroni e le trattano come vere e proprie schiave. Per le donne cristiane asiatiche in cerca di un futuro migliore nei Paesi della penisola arabica, spesso la realtà è fatta di abusi e soprusi. A denunciarlo è World Watch Monitor (Wwm) — sito impegnato a raccontare le ingiustizie patite dai cristiani nel mondo a causa della loro fede che, in un recente rapporto ripreso da Riforma.it e dall’Osservatore Romano, descrive in maniera particolareggiata alcune delle sofferenze sopportate da queste donne, assunte presso ricche famiglie arabe che prediligono le baby-sitter e le domestiche di fede cristiana per la loro integrità e affidabilità.

I datori di lavoro si ritengono “proprietari” delle ragazze
Virat (il nome è di fantasia), di origine asiatica, pastore di riferimento di alcune di queste lavoratrici cristiane, spiega a Wwm le ingiustizie inflitte a molte di coloro che lasciano i propri paesi di origine per lavorare e provvedere al sostentamento delle proprie famiglie e che si ritrovano invece vittime di una moderna schiavitù. Spesso denutrite, sono costrette a lavorare «come macchine» con orari disumani, a volte senza neanche percepire lo stipendio. In alcuni casi subiscono torture, violenze fisiche e abusi sessuali. I datori di lavoro, ritenendosi “proprietari” delle ragazze, le trattano come “schiave”, confiscano i passaporti quando iniziano a lavorare presso le loro abitazioni, impedendo in questo modo qualsiasi tentativo di fuga. «Una tata che seguivo — racconta Virat — ha subito per decenni ogni genere di sopruso prima che potesse fuggire e mettersi in salvo». Alcune giovani fortunatamente riescono a scappare e a trovare rifugio in case sicure gestite dalle ambasciate asiatiche, dove attendono i documenti di viaggio per poter fare ritorno in patria.

“Sequestri di persona” e violenze
Certe testimonianze parlano di veri e propri “sequestri di persona” da parte dei datori di lavoro, responsabili di abusi e torture. Sarebbero centinaia le donne che vivono una simile condizione di sfruttamento e schiavitù. Fra l’altro, una volta noto che queste donne hanno subito violenza, è assai difficile per loro trovare una nuova occupazione o che qualcuno accetti di sposarle. Vengono considerate dei “fallimenti” dalle loro stesse nazioni, oltre che dalle proprie famiglie, e a volte il trauma è così forte da spingerle al suicidio. Virat racconta di aver sentito perfino storie di bambinaie uccise e fatte sparire. Altre sono state sistematicamente picchiate, private del cibo, costrette a dormire non più di tre ore a notte, limitate negli spostamenti esterni e nelle frequentazioni.

Vittime di una moderna schiavitù
«Il sogno di lavorare sodo per guadagnare i soldi sufficienti per mantenere la loro famiglia viene brutalmente infranto dalla dura realtà di una moderna schiavitù. Un comportamento, quello di agire come padroni o proprietari, insito in molte famiglie ricche e tramandato da generazioni. E i governi di queste povere vittime — è ancora il pastore protestante a parlare — spesso chiudono un occhio davanti a tali ingiustizie». Nel 2013, per la prima volta nella storia del paese, l’Arabia Saudita ha approvato il divieto di ogni forma di violenza fisica e sessuale compiuta a casa e sul posto di lavoro, reato punibile con la detenzione fino a un anno e con il pagamento di una multa. Ma la misura non ha portato a significativi risultati. In un recente rapporto, Amnesty International ha affermato che donne e ragazze subiscono gravi discriminazioni e non sono adeguatamente protette da abusi e violenze in alcune nazioni della penisola arabica. Anche Human Rights Watch ha ripetutamente denunciato la situazione, affermando che milioni di lavoratori migranti subiscono abusi e sfruttamento «pari alle condizioni del lavoro forzato».

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Venezuela: iniziative parrocchie per fronteggiare l'emergenza

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L’iniziativa si chiama "olla solidaria" o anche "olla comunitaria" (letteralmente, pentola solidale o comunitaria) e sta progressivamente prendendo piede in numerose realtà ecclesiali — parrocchie, conventi, strutture caritative — per fare fronte alla grave emergenza, anche alimentare, che sta attraversando il Venezuela. Il prossimo appuntamento – ricorda l’Osservatore Romano - è fissato per domenica 26 marzo nella città di Mérida per iniziativa della Conferenza episcopale e di Caritas Venezuela. Ma l’esperienza è partita con successo lo scorso ottobre in una parrocchia dell’arcidiocesi di Barquisimeto per mettere in pratica l’invito di Papa Francesco per il giubileo della misericordia. Si tratta di approntare giornalmente uno spazio dove si cucina per la gente che soffre la fame. «La situazione nel nostro paese è molto critica e come Chiesa siamo chiamati ad aiutare i bisognosi, come Gesù ci insegna nel suo Vangelo», spiega il parroco, padre Jesús Martínez.

Il 93% delle famiglie non riesce a comprare cibo sufficiente
Ogni giorno nella parrocchia di Barquisimeto, intitolata a san Francesco d’Assisi, si preparano cinque grandi pentole per dare da mangiare a 400 o a volte anche a 500 persone: anziani, bambini e persino intere famiglie. All’inizio erano in pochi, e c’era solo una pentola, poi il gruppo è cresciuto e a gennaio è stato attrezzato in parrocchia uno spazio e una piccola cucina con due grandi pentole. «Non è un lavoro facile, soprattutto avere il cibo e le persone che dedicano ogni giorno parte del loro tempo a questa opera di carità e di misericordia», afferma il parroco, il quale spiega che «adesso anche altre parrocchie hanno cominciato a imitare questa iniziativa, perché la situazione è critica». In effetti, sempre più persone in Venezuela sono costrette addirittura a rovistare nella spazzatura nella disperata ricerca di cibo. E non si tratta solo di mendicanti e di senzatetto, ma di centinaia di famiglie. Secondo recenti indagini il 93 per cento delle famiglie venezuelane non riesce a comprare cibo sufficiente, mentre l’8 per cento rovista tra i rifiuti. Una situazione che non può lasciare indifferente la comunità cristiana. 

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Patriarcato caldeo: vocazioni, appello alla diaspora

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Le comunità caldee della Diaspora, con i loro vescovi, sono sollecitate a prendere iniziative per affrontare in loco il problema della carenza di vocazioni sacerdotali, anche incentivando le ordinazioni sacerdotali di uomini sposati. Sono le indicazioni e i suggerimenti contenuti in un comunicato del Patriarcato caldeo che risponde così alle comunità caldee disseminate in tutto il mondo che hanno chiesto l’invio urgente di sacerdoti per la cura pastorale dei fedeli emigrati dall’Iraq.

Prioritaria la presenza di un congruo numero di sacerdoti in Iraq
Negli ultimi 15 anni l’esodo dei cristiani caldei dal Paese si è infatti intensificato a causa di diversi fattori: guerra, terrorismo, estremismo settario, mancanza di sicurezza e instabilità politica. “Il Patriarcato – si legge nel comunicato ripreso dall'agenzia Fides – sa bene che ci sarebbe bisogno di sacerdoti per le comunità caldee che si trovano in Australia, Canada, Stati Uniti, Europa e in diversi Paesi del Medio Oriente”. Ma la scarsità di vocazioni rende di fatto impossibile venire incontro alle tante richieste. E dovendo scegliere, il Patriarcato afferma di considerare prioritaria la permanenza di un congruo numero di sacerdoti presso le diocesi che amministrano i territori iracheni.

Favorire l’aumento del numero dei sacerdoti in tutte le diocesi
Il Patriarcato invita quindi tutti i vescovi a cercare soluzioni per favorire l’aumento del numero dei sacerdoti nelle rispettive diocesi, compreso un maggior ricorso all’ordinazione sacerdotale di uomini sposati, contemplata nella disciplina canonica delle Chiese cattoliche orientali. (L.Z.)

 

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India: vescovi lanciano un portale per i lavoratori migranti

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Promuovere un’emigrazione sicura e garantire una protezione sociale per i lavoratori indiani che emigrano in altri Stati del Paese o all’estero. Questo l’obiettivo del nuovo portale wifmdm.com  per la registrazione dei lavoratori migranti approntato dalla Conferenza dei vescovi indiani (Cbci) in collaborazione con la Federazione dei lavoratori dell'India (Wif), organizzazione nata nel 2010 e affiliata alla stessa Conferenza episcopale. L’iniziativa - spiega padre Jaison Vadassery, segretario dell’Ufficio episcopale per la Pastorale per il lavoro - “risponde alla missione della Chiesa di prendersi cura dei lavoratori migranti”.

Assicurare ai migranti sostegno e protezione
Il numero dei cittadini indiani che decide di recarsi all’estero o di spostarsi nelle città più produttive in cerca di un impiego è in continuo aumento. E il lavoro svolto da questi migranti è diventato sempre più importante per l’economia, soprattutto perché chi si reca all’estero manda rimesse in patria di cui beneficiano sia il Paese che le famiglie di origine. Troppo spesso però i migranti sono vittime di abusi, maltrattamenti, violenze, vivono in condizioni disumane e degradanti, in povertà e miseria, senza a volte nemmeno conoscere e far valere i propri diritti. Lo scopo del portale – riporta L’Osservatore Romano - è di raccogliere i dati di questi migranti dal loro luogo d’origine alla destinazione, così da assicurare loro sostegno e protezione.

Ridurre la vulnerabilità dei lavoratori migranti
Il Migrants’ Data Manager - spiega il sito – servirà a promuovere una cultura migratoria “che ridurrà la vulnerabilità sia dei dipendenti che dei datori di lavoro”. Ai migranti che si registreranno saranno comunicati i contatti dei centri del Wif presenti nelle aree in cui lavorano perché possano ricevere sostegno e assistenza. In particolare, gli operatori del Wif favoriranno l’inserimento nei luoghi di lavoro, terranno corsi di formazione e iniziative per l’impiego, oltre a offrire servizi sanitari e assistenza pastorale. 

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Sito Radio Vaticana

Bollettino del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LXI no. 81

E' possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sul sito http://it.radiovaticana.va

Segreteria di redazione: Gloria Fontana, Mara Gentili e Beatrice Filibeck, con la collaborazione di Barbara Innocenti e Serena Marini.