Darfur: il no dell'opposizione armata alla tregua del presidente sudanese
Un cessate il fuoco unilaterale in Darfur. E’ quanto annunciato ieri a Khartoum dal
presidente sudanese Omar El Bashir, che ha poi chiesto ai ribelli di fare altrettanto;
la risposta, però, è stato un 'no' secco di uno dei movimenti. Un annuncio, quello
del capo di Stato sudanese, che ha suscitato perplessità nelle cancellerie internazionali
e che giunge a sei anni dall'inizio della guerra civile che ha causato nel Paese africano
oltre 200.000 morti e più di 2 milioni di profughi. Stefano Leszczynski ha
chiesto a Riccardo Noury di Amnesty International – Italia, come mai la notizia
sia stata accolta con scetticismo dalla comunità internazionale:
R. – Perché
non si tratta della prima dichiarazione di cessate il fuoco unilaterale. In questi
cinque e più anni di conflitto in Darfur ce ne sono state diverse e ciascuna di esse
non ha significato molto, se non nulla, nella vita della popolazione del Darfur. Quindi,
speriamo che non sia l’ennesima dichiarazione vuota, ma che ci siano miglioramenti
concreti nella sicurezza dei darfuriani e che la missione dell’ONU e dell’Unione Africana
riesca finalmente a dispiegarsi in maniera completa e a fermare la violenza in tutta
la regione.
D. – Una violenza che colpisce soprattutto
i civili...
R. – Certo, chi ne fa le spese, come
sempre in casi del genere, è la popolazione civile. Alcuni dati è bene ricordarli:
in cinque anni e qualcosa di più dall’inizio del conflitto, almeno 300 mila persone,
civili, sono stati uccisi; migliaia e migliaia di donne stuprate e milioni di civili
costretti alla fuga. E il conflitto via via si è allargato anche al confinante Ciad,
investendo anche la parte di questo Paese che confina con il Sudan. In tutto questo,
la protezione dei civili non è mai stata considerata una priorità da parte della comunità
internazionale. La missione di peace-keeping che è sul posto è fortemente sottodimensionata
dal punto di vista del personale ed è anche male equipaggiata.
D.
– Quello in Darfur è un conflitto molto complesso, anche perchè è difficile individuare
con esattezza le parti che bisognerebbe portare al dialogo...
R.
– E’ un po’ un rituale che si verifica nei conflitti, nei quali oltre a divisioni
endemiche tra i vari gruppi dell’opposizione, c’è anche una politica del 'divide et
impera' da parte del governo centrale, che tenta proprio di non far attribuire legittimità
ad una singola parte negoziale. Il risultato è che con l’opposizione che si frantuma
in vari gruppi e il governo che favorisce questa divisione, la popolazione civile
rimane non rappresentata sul piano negoziale. Quindi, non c’è un interlocutore solo,
credibile ed autorevole che possa negoziare la pace. Il Paese rimane in balia di
questa frammentazione del territorio che significa ancora più insicurezza.
D.
– Questa disponibilità alla tregua da parte del governo sudanese quali vantaggi potrebbe
portare al governo sudanese stesso?
R. – Penso che
questa dichiarazione sia in parte anche legata al tentativo delle autorità di Karthoum
di svincolarsi da pressioni che, sul piano internazionale e della giustizia internazionale,
stanno arrivando sempre più massicce. Il vantaggio che ne può derivare è appunto una
sospensione delle procedure di incriminazione con il conseguente rischio che ci sia
una diffusa impunità per i crimini di guerra che sono stati commessi in questi cinque
anni.