Sentenza d'appello al processo per l'omicidio di Meredith Kercher: il commento di
Francesco D'Agostino
Polemiche e dibattito in Italia dopo l’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito
dall’accusa di omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, avvenuto a Perugia
nella notte tra il primo e il 2 novembre 2007. La cronaca nel servizio di Roberta
Gisotti:
Il verdetto,
ieri, della Corte d’assise della città umbra, è stato accolto da urla e fischi della
folla che, radunata davanti al Palazzo di Giustizia, ha gridato in coro vergogna all’indirizzo
degli avvocati della difesa Amanda Knox e Raffaele Sollecito, i due giovani studenti
universitari, che si sono sempre dichiarati innocenti. Sentenza che annulla le condanne
a 25 e 26 anni di reclusione che i due ex fidanzati imputati stavano scontando in
carcere, dopo essere stati arrestati dalla Polizia quattro giorni dopo l’efferato
delitto, che ha acceso la fantasia dei media non solo in Italia. Attonita nell’aula
del Tribunale la famiglia della vittima, che ha poi ribadito alla stampa fiducia
nella giustizia italiana, chiedendosi però chi siano allora i complici del terzo imputato,
Rudy Guede, nell'omicidio di Meredith. Knox e Sollecito, assolti con formula piena
per non aver commesso il fatto, sono stati subito liberati. Sollecito ha fatto ritorno
a Bisceglie in Puglia, mentre la Knox è ripartita stamane per gli Stati Uniti, suo
Paese d’origine. Si attendono ora entro 90 giorni le motivazioni della sentenza, ma
si ritiene siano state decisive a ribaltare il giudizio di primo grado le perizie
genetiche sull’arma del delitto ed altri reperti. La sentenza d’appello sarà comunque
impugnata in Cassazione dall’accusa che aveva chiesto la condanna all’ergastolo per
Knox e Sollecito.
Sull’esito di questo processo Luca Collodi ha
intervistato il prof. Francesco D’Agostino, presidente dell’Unione giuristi
cattolici italiani:
R. –
In tutti i processi indiziari – e questo è un tipico esempio di processo in cui mancano
le prove regine, come la confessione degli imputati o testimoni oculari dell’evento
– resta sempre, e resterà sempre, il dubbio sulla colpevolezza degli imputati, esisterà
sempre chi dirà che in realtà si sta facendo un’ingiustizia. Da questo punto di vista,
non mi meraviglia affatto che un processo, oltretutto anche complicato - per la stranezza
di come si è verificato questo terribile omicidio - non possa che dare adito a dibattiti,
controversie, interpretazioni che non finiranno neanche nei prossimi giorni e dureranno
ancora chissà quanto. In altre parole, bisogna vedere le vicende della giustizia con
molta freddezza, anche se mi rendo conto che esortare alla freddezza non vada incontro
ai desideri viscerali degli amanti della cronaca nera.
D. – Questo processo,
secondo lei, mette in luce i limiti della giustizia italiana, di cui tanto si parla
in questo periodo?
R. – Assolutamente no. La procedura, soprattutto
penale, ma anche civile italiana, crea mille problemi, ma questo di Perugia non è
un esempio adeguato per puntare il dito contro il sistema giudiziario italiano. Anzi,
ritengo che i giudici, capovolgendo il verdetto di primo grado abbiano dato una buona
prova dell’autonomia che si dà tra i due diversi gradi di giudizio, di prima istanza
e di seconda istanza. Il problema – ripeto – è della natura stessa del caso e della
vicenda processuale, basata tutta su indizi complicati ad analizzarsi e, a volte,
addirittura non coerenti tra di loro. Se vogliamo parlar male o addirittura auspicare
la riforma del sistema giudiziario italiano ricorriamo ad altri esempi: non ne mancano.
D. – Per chiudere, dovremmo dire che la giustizia umana è veramente
difficile!
R. – La giustizia umana non solo è difficile, ma qualcuno
in un momento di scoraggiamento potrebbe anche dire che è impossibile rendere davvero
giustizia in questo mondo. Però, aggiungiamo subito, che l’immensa difficoltà di rendere
giustizia si unisce alla necessità del sistema giudiziario, per garantire un minimo
di convivenza ordinata. In altre parole, il processo può anche essere definito un
male, ma è sicuramente un male necessario. Dobbiamo anche in questo caso avere quel
minimo di obiettività e di freddezza per riconoscere che dei processi non possiamo
fare a meno e non possiamo fare a meno di questi “poveri” giudici, sia togati che
non togati, che vengono chiamati a questo compito terribile di giudicare e che sono
i primi, sicuramente, ad avere consapevolezza della loro fallibilità. (ap)