La Cina ammette trapianti di organi da condannati a morte
I condannati a morte giustiziati sono in Cina la fonte principale di organi per i
trapianti, a causa della carenza di donatori volontari. E’ quanto ha reso noto il
ministro cinese della Salute, Huang Jiefu, sollevando reazioni di sdegno a livello
internazionale. L’ammissione scuote ma il fenomeno era noto, come spiega, nell’intervista
di Fausta Speranza, il prof. Nanni Costa, direttore del Centro Nazionale
Trapianti di Roma:
R. - La Cina
in campo trapiantologico ha un dato negativo: una parte dei donatori d’organo sono
i soggetti condannati a morte. Questo è un fatto inaccettabile sul piano etico tanto
che lo stesso governo cinese ha riconosciuto questo fatto e negli ultimi anni sta
cercando di incrementare la pratica della donazione nei soggetti ricoverati negli
ospedali in condizione di morte accertata con criteri neurologici, cioè nelle stesse
condizioni in cui le donazioni vengono fatte nel mondo occidentale.
D. – Dunque
in qualche modo sta prendendo atto della drammatica questione?
R. – Esistono
colloqui fra il governo cinese e l’Organizzazione Mondiale della Sanità che sono in
questa direzione ma ci sono stati anche impegni pubblici del governo cinese in questo
senso. Le agenzie che sono arrivate in questi giorni ci dicono tuttavia che esiste
una reale difficoltà del sistema cinese a modificare le procedure, almeno in una loro
parte rilevante.
D. – Qual è il peso dell’opinione pubblica, quali sono le
convinzioni che stanno dietro questa pratica?
R. – Io non credo ci sia il peso
dell’opinione pubblica. In Cina viene fatto un numero molto elevato di trapianti all’anno:
10.000. La Cina è il secondo Paese per numero di trapianti dopo gli Stati Uniti, il
secondo Paese al mondo. Purtroppo è un sistema che è cresciuto su un’inaccettabile
modalità di prelievo degli organi dai condannati e nel momento in cui il governo cerca
in qualche modo di uscire rispetto a questo problema si trova di fronte, da una parte,
a una richiesta terapeutica proveniente dai pazienti in lista di attesa e, dall’altra
parte, a una procedura inaccettabile. Tornare indietro, ragionevolmente, non è semplice,
ma io credo che la modalità giusta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sia proprio
quella di cercare di lavorare per introdurre all’interno del sistema cinese elementi
giuridicamente analoghi a quelli che ci sono nel resto del mondo occidentale: cioè,
se non si innestano nel sistema buone pratiche il problema è irrisolvibile.
D.
– Accenniamo anche ad altre situazioni internazionali di emergenza nella questione
trapianti…
R. – Credo che la Cina, per i volumi, sia la situazione più difficile
sul piano mondiale e la nostra valutazione è l’assoluta inaccettabilità, dal punto
di vista etico, dei comportamenti. Non esiste un’altra situazione così drammatica.
Esiste, invece, - cerchiamo di guardarla in positivo - dal 2008, una posizione ufficiale
di tutte le organizzazioni mondiali, in un trattato, che è il Trattato di Istanbul,
nel quale viene detto con chiarezza quali sono le pratiche da sostenere e quali sono
le pratiche inaccettabili. Ad esempio, è inaccettabile la pratica che viene definita
del “turismo trapiantologico” che riguarda non il prelievo di organi da soggetti messi
a morte ma riguarda la donazione di reni da parte di soggetti deboli che vengono pagati
per dare l’organo a pazienti provenienti da altri Paesi. Non avviene nei Paesi dell’Unione
Europea: questo va detto con chiarezza. Però c’è una posizione nei Paesi emergenti
o in altri continenti che è assolutamente negativa come valutazione rispetto a queste
pratiche. L’Oms e tutte le organizzazioni internazionali, comprese le organizzazioni
scientifiche, hanno preso una forte posizione contro ogni forma di turismo trapiantologico.
C’è un sostegno invece alla direzione opposta, che è quella della autosostenibilità
dell’attività di trapianto in ogni Paese. Quindi ogni Paese è chiamato a cercare di
fare tutto il possibile per aumentare il numero dei trapianti e per evitare questi
viaggi di turismo trapiantologico. (bf)