Roma: partorisce il figlio e lo butta nel cassonetto. Intervista con Carlo Casini
Ha partorito di nascosto in casa, nell'abitazione della sorella, e poi ha condannato
a morte il suo neonato chiudendolo in un sacchetto di plastica e vagando per ore prima
di gettarlo in un cassonetto dell’Ospedale San Camillo. Questa volta è Roma il teatro
dell’allucinante ripetizione di un gesto che vanta ormai troppi precedenti. La sua
autrice, una donna romana 25.enne, è stata arrestata dalla polizia con l’accusa di
infanticidio. Al microfono di Federico Piana, il presidente del Movimento per
la vita, Carlo Casini, ribadisce che una mamma che non voglia tenere il figlio
ha la facoltà di affidarlo anonimamente, senza essere perseguita dalla legge:
R. – La sensazione
è quella di un dolore, di un dolore grande per il bambino morto, ma anche per la mamma,
però. Per il bambino, che poteva essere salvato facilmente: oggi, c’è una legge che
consente di lasciare in anonimato un bambino in ospedale, senza rischi per la mamma
per la salvezza del bambino. Ci sono anche quelle che noi chiamiamo “culle per la
vita”: anche a Roma ci sono. Ora, questa mamma si trova incriminata e mi fa pena anche
lei: chissà che anche questa povera donna si sia trovata nella condizione di non sapere
quello che stava facendo… Però, anche lì, è arrivata al parto, come? E’ certamente
una donna che si è sentita sola, che avrà tenuto nascosta la gravidanza, che non ne
ha parlato con nessuno…
D. – A questo proposito, dove sono la famiglia, le
persone che le vogliono bene? Nessuno si accorge? Nessuno vede?
R. – Io so
che anche per l’aborto è la stessa storia: il comune denominatore è la solitudine.
Se si riesce a rompere la solitudine, i problemi si risolvono. Ci sono possibilità
alternative. La società, attraverso queste “culle della vita”, dimostra che i bambini
non si devono buttare via. E se una mamma non ce la fa, la società apre le braccia.
Ci sono famiglie pronte ad accogliere.
D. – Secondo lei, però, non servirebbe
qualcosa di più, oltre alla legge? Perché la legge anche se c’è sembra non funzionare:
i casi sono tanti, non è la sola donna che ha compiuto questo gesto così drammatico…
R.
– Sì, in questi ultimi anni ce ne sono stati tanti, questo è l’ultimo anello della
catena. Quando si dice che i bambini non contano nulla, che sono grumi di cellule
e sono considerati solo “in potenza” – quando ti insegnano perfino all’Università
che si può compiere l’aborto post-natale – allora qui c’è tutta una cultura da ricostruire.
Si capisce che c’è un problema educativo di grandissimo respiro.
D. – Cosa
spinge, secondo lei, una mamma che porta a termine una gravidanza, a uccidere il proprio
figlio? C’è anche un aspetto psicologico?
R. – E’ conosciuta la “crisi post-partum”:
lo stesso Comitato nazionale di bioetica si è occupato di questo. C’è un lungo ed
elaborato parere che riguarda proprio la sindrome post-partum, in cui effettivamente
per un periodo di tempo breve ci può essere una crisi depressiva nella donna, nella
madre, anche quando la gravidanza l’abbia voluta, ma che si trovi improvvisamente
di fronte a questa novità assoluta che la sconvolge. Questo è il caso in cui la società
si deve fare accanto, deve stare in piedi, deve dire: “Non ti lasciamo sola, non sarai
sola”. La funzione soprattutto degli organismi di volontariato specializzati e di
strutture pubbliche, che siano in modo trasparente, limpido, univoco a servizio della
vita e della maternità.