Polemiche a Berlino per la recente apertura del museo dedicato alla bambola Barbie
Ha suscitato polemiche la prima casa di Barbie europea a grandezza naturale, la Dream
House, di recente aperta a Berlino. Un museo della perfezione in rosa che, secondo
i critici, potrebbe indurre le bambine a voler imitare le bambole Barbie: tanto belle
quanto irreali, capaci di raggiungere degli obiettivi nella vita solo grazie all’aspetto
fisico. Al microfono di Elisa Sartarelli, la giornalista e scrittrice Loredana
Lipperini, autrice del saggio “Ancora dalla parte delle bambine”. R. - Quando ho letto
la notizia del Museo di Barbie a Berlino, da una parte mi ha fatto sorridere, perché
mi sembra un’iniziativa fuori tempo massimo. Mi ha ricordato molto quello che scriveva
più di dieci anni fa Naomi Klein in No logo, quando parlava della strategia
delle marche che, per coinvolgere i consumatori più che creare un oggetto di consumo,
creano un moNdo a cui quell’oggetto appartiene, invitando quindi chi consuma ad entrare
nell’universo del marchio stesso. Ci sta provando anche la Barbie, perché creare un
museo, da una parte significa far entrare non soltanto i bambini – direi, ma gli adulti
che ancora si sentono bambini o per meglio dire bambine - in un universo. Dall’altra
parte, proprio la definizione di “museo” sancisce l’appartenenza al passato. Tutta
questa premessa per dire che in sé la Barbie non è il male. Il problema è che quando
si propone la Barbie come unico prodotto alle bambine, si tengono fuori i maschi da
questo discorso. Quindi il museo di Berlino mi sembra abbastanza innocuo, tutto sommato,
anche se terribilmente kitsch e fuori tempo. Magari ci sono altri segnali che dovrebbero
inquietarci di più.
D. - Per esempio?
R. - Per esempio, il fatto che
in realtà le bambine, da diversi anni, giochino sempre meno e si trucchino sempre
di più, perché oggi, quello che viene allegato ai magazine per bambine è un set di
trucchi. Se si va in un qualsiasi negozio di giocattoli e si guarda nel reparto dedicato
alle bambine - rigorosamente di color rosa - si vede che la maggior parte dell’offerta
si concentra su set di trucchi ovviamente anallergici, ovviamente studiati per le
pelli delle bambine di cinque, sei, otto anni, ma sempre trucchi rimangono. E se si
guarda una pubblicità di giochi elettronici, si vede che ad essere rappresentati sono
sempre i maschietti e mai le bambine, come se fossero tagliate fuori da quel mondo.
Questo mi sembra più pericoloso: “l’adultizzazione” delle bambine.
D. - Come
possiamo riportare queste bambine ai veri valori? Non solo al trucco, alle scarpette
rosa…
R. - Semplicemente proponendo loro delle alternative che vanno semplicemente
messe sul piatto non vietando, ma facendo vedere che ci sono altre strade. D’altra
parte, c’è un punto di consolazione: i recentissimi dati Istat sulla lettura ci dicono
che non proprio le bambine, ma le preadolescenti e le adolescenti, sono quelle che
salvano il nostro Paese dalla morte dell’editoria, perché sono fra le maggiori lettrici
d’Italia. Quindi, questo qualcosa vorrà pur dire. Credo che un genitore non debba
preoccuparsi più di tanto di tenere la propria figlia in una campana di vetro, quanto
di far vedere che esistono modelli diversi, e possibilmente essere in prima persona
quel modello diverso.
D. - Il femminicidio, può essere il frutto di una cultura
diffusa che insegna indirettamente a bambini e bambine che le donne sono Barbie, quindi
corpi senza mente da eliminare se dicono “no”?
R. - Sinceramente, non farei
una correlazione solo con la Barbie. Che però il femminicidio sia frutto di una cultura
diffusa che vuole uomini e donne incardinati a delle caratteristiche naturali, questo
è senza dubbio. Quando si dice “l’uomo è cacciatore, la donna è preda”, ci si dimentica
sempre che la preda viene uccisa.