Siria: strage in una scuola di Aleppo. Ancora sotto minaccia il villaggio cristiano
di Kanaye. Il dramma dei profughi in Giordania
Non si arresta la violenza in Siria. Ad Aleppo bombardata una scuola: decine i bambini
uccisi. Nei tre giorni di raid governativi sarebbero morte oltre 100 persone. Ancora
sotto minaccia il villaggio cristiano di Kanaye, nell’area di Idlib. Intanto la diplomazia
internazionale ha spostato nella cittadina elvetica di Montreux la conferenza di pace
cosiddetta “Ginevra2”, prevista per il prossimo 22 gennaio. Marina Calculli:
E’ salito a
oltre 100 morti il bilancio delle vittime del raid che l’aviazione di Bashar al-Assad
ha condotto negli ultimi tre giorni ad Aleppo. Tra di essi si contano anche circa
34 bambini, come denuncia l’Osservatorio siriano per i diritti umani. Un funzionario
di Medici Senza Frontiere ha testimoniato che in almeno due occasioni le bombe sono
state sganciate su una scuola e alla fermata dei trasporti pubblici. Cuore della frattura
tra ribelli e filogovernativi, Aleppo è una delle città più martoriate di questo conflitto.
Ma poco più a nord della città si combatte una guerra ben diversa. Qui, gruppi di
islamisti tengono a fil di spada quasi tutta la regione di Idlib. Il loro obiettivo
è imporre la legge islamica a tutta la popolazione, che prima del 2011 contava anche
60mila cristiani. Da pochi giorni in uno dei villaggi della zona, Kanaye, sono intrappolati
circa 2000 cristiani. La condizione è convertirsi all’Islam o abbandonare le proprie
case. Già l’anno scorso gli islamisti avevano conquistato il villaggio cristiano di
Ghassanieh, costringendo tutti i suoi abitanti a fuggire.
Il conflitto, intanto,
continua a produrre un’ondata di profughi senza precedenti. Tra i Paesi coinvolti
sicuramente la Giordania; qui è stato creato il campo profughi di Zaatari, gestito
dall’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati. E proprio a Zaatari si trova il collega
Matteo Marcelli, che al microfono di Salvatore Sabatino, racconta la
situazione d’emergenza che vivono gli sfollati:
R. – La situazione
rimane emergenziale. Certo, però, bisogna dire che l’impressione che ho io, guardandomi
attorno, è certamente migliore qui, rispetto a qualche mese fa. Ovviamente, rispetto
all’inverno scorso ci sono almeno la metà dei rifugiati. Questo, quindi, rende le
cose più gestibili. Diciamo che Zaatari è pronto per l’inverno e diciamo che, dove
c’erano tende, l’inverno scorso, ora ci sono per lo più caravan. Ma vedo anche negozi
e una certa attività che, insomma, lascia sperare per il futuro.
D. – E’ questo
momento, però, particolarmente delicato per questo campo profughi – che sorge, lo
ricordiamo, nel deserto – a causa delle cattive condizioni meteo. E' nevicato moltissimo:
questo quanto ha influito sulla qualità dia vita dei profughi?
R. – Certamente,
le ultime manifestazioni da parte dei profughi sono legate proprio a questo. Il problema
principale rimane il freddo. Hanno appena portato delle bombole per alimentare termosifoni
a gas e questo ha, in qualche maniera, creato qualche agitazione. In sostanza, però,
la situazione è abbastanza tranquilla. Certo, le condizioni non sono delle migliori,
soprattutto per le famiglie che abitano nelle tende – e ce ne sono ancora molte –
che sono ancora in attesa di un proprio container, che qui chiamano caravan.
D.
– Si è fatto un gran parlare negli scorsi mesi anche di problemi legati alla sicurezza
nel campo profughi di Zaatari...
R. – Quelli probabilmente rimarranno sempre.
Si è parlato molto, quindi, di stupri, si è parlato molto di furti, ma certamente
quelle sono dinamiche della popolazione interna che, ovviamente, l’Alto Commissariato
non riesce a gestire e neanche le forze armate giordane sono in grado di tenere a
freno. Sicuramente, dunque, è una situazione che purtroppo non può essere limitata
o comunque può essere frenata ma non in maniera decisiva, proprio perché esistono
delle dinamiche delle comunità, delle divisioni, delle gerarchie, che ovviamente sono
molto più cogenti di quanto non siano le decisioni dell’Alto Commissariato e dei “camp
manager” che sono qui.
D. – Nel contempo, però, c’è anche un grande senso di
solidarietà tra la gente...
R. – Certo, sicuramente questo è alimentato molto
dalle associazioni. Ma, ripeto, la situazione è migliorata e questo si può misurare
dal fatto che Medici senza Frontiere non c’è più, la Caritas non c’è più. C’è, comunque,
un clima, quindi, per quanto possibile, certamente migliore. Questo sì, è evidente.
D.
– Questo campo profughi sorge in Giordania, un Paese che sta pagando delle conseguenze
enormi della guerra in Siria. Tra l’altro, non sono stati stanziati fondi dal governo
per gestire questa emergenza...
R. – No, i fondi sono, totalmente, quelli che
vengono dall’Alto Commissariato Onu e dalle varie associazioni. Tra l’altro, parrebbe
conclusa la costruzione di un altro campo, in un’altra zona, che è quella di Azraq.
Un campo, costato 35 milioni, che sono tutti dell’Acnur. Certamente, la Giordania
non è un Paese in grado di fornire aiuti da un punto di vista economico, però li ha
già accolti, e qui dicono che sia già molto. Questa ovviamente è l’opinione. La maggior
parte dei container vengono dall’Arabia Saudita e dal Kuwait e la maggior parte degli
aiuti vengono da associazioni europee e nordamericane.
D. – Stando in Giordania,
hai potuto evidentemente comprendere anche quelli che sono gli umori della popolazione
locale, rispetto a questa ondata di profughi, che era imprevedibile...
R. –
Questa è una situazione un po’ particolare, perché non ad Amman, ma andando verso
il Sud, c’è gente che fa soldi sui rifugiati. Sapendo degli aiuti, molti locali affittano
case – e per case intendiamo bilocali con il bagno fuori o senza bagno – per cifre
che qui appaiono esorbitanti. Molte associazioni, infatti, danno soldi per pagare
l’affitto a queste famiglie. C’è anche questo problema. Diciamo però che la popolazione
giordana è molto favorevole e molto accogliente. Il problema è che, come dappertutto,
c’è anche chi specula su questa gente.