Obama: dalla guerra contro la povertà alla guerra alle diseguaglianze
Cinque Promise Zones, cinque distretti tra i più arretrati degli Stati Uniti
da aiutare a crescere, dove sarà possibile godere di sgravi, benefici e aiuti federali
che contribuiscano a promuovere lo sviluppo e il benessere di tante famiglie disagiate.
È in sintesi la dichiarazione di “guerra alla diseguaglianza”, lanciata dal presidente
Barack Obama, nell’anno delle elezioni di midterm. Le aree interessate si trovano
nelle zone di San Antonio, Filadelfia, Los Angeles, nel Sudest del Kentucky e nella
regione dell'Oklahoma in cui c’è la Chotcaw Nation dell’omonima tribù di nativi. La
promessa del presidente statunitense, per il quale la “diseguaglianza è la sfida del
nostro tempo”, è di portare le Promise Zones a venti in tre anni. Ce ne parla
John Harper, docente di Storia Americana alla "John Hopkins University" di
Bologna, intervistato da Giada Aquilino:
R. - Ci sono
due o tre motivi per cui Obama ha scelto questo momento per lanciare la campagna:
anzitutto siamo nel 50.mo anniversario dell’annuncio della famosa “guerra alla povertà”
di Lyndon Johnson. E questo è un tema molto caro ad Obama, anche se in questi ultimi
tempi non ha potuto dedicare l’energia e il capitale politico che avrebbe voluto.
Naturalmente siamo anche in un anno in cui - a novembre - ci saranno le elezioni di
midterm e quello della diseguaglianza crescente e della povertà che persiste,
soprattutto in certe zone del Paese, diventa un tema centrale della politica americana.
D.
- Dalla “guerra alla povertà” del presidente Johnson, che lei ha ricordato, alla “guerra
alla disuguaglianza” di Obama, gli Stati Uniti come si sono trasformati, da un punto
di vista sociale?
R. - C’è un articolo interessante sul New York Times
di questa mattina, in cui Paul Krugman spiega che la “guerra alla povertà” non ha
fallito: il livello assoluto di povertà è più basso adesso rispetto a cinquant’anni
fa. Ma il problema emergente, negli ultimi due decenni, direi che è proprio la disuguaglianza
più generalizzata, che incide sulla middle class - sui ceti medi - e non solo
sulle zone tradizionalmente arretrate.
D. - Cosa si intende per diseguaglianza
generalizzata?
R. - Che i ricchi stanno diventano più ricchi e che il reddito
del ceto medio rimane stagnante. Questo è dovuto ad una serie di fattori: alla globalizzazione;
all’innovazione tecnologica, che elimina lavori ben pagati, a Detroit per esempio;
e infine alla politica fiscale degli ultimi decenni. Naturalmente la “guerra alla
povertà” al giorno d’oggi si dovrà svolgere in un contesto fiscale totalmente diverso
rispetto a cinquant’anni fa. Quindi bisogna cercare il modo di non spendere soldi,
che non ci sono, ma di rafforzare i programmi esistenti. Tutti sanno che con la situazione
fiscale che c’è, è impossibile attaccare il problema con i soldi come invece ebbe
la possibilità di fare 50 anni or sono Lyndon Johnson. Il contesto è completamente
diverso adesso.
D. - In questi giorni anche i vescovi americani hanno scritto
una lettera al Senato per chiedere condizioni di lavoro dignitose e salari giusti
ed equi per i lavoratori. Allora, in concreto, cosa c’è da fare nell’immediato?
R.
- La cosa da fare subito è l’estensione dei benefici della - chiamiamola così - cassa
integrazione americana federale, al momento scaduti; alzare il salario minimo generale,
che adesso è a 7 dollari e 50 centesimi - è una cifra ridicola, se ci si pensa -
e portarlo almeno a 10-11 dollari; e poi sperare di rilanciare la crescita americana:
anche su questo fronte, c’è qualche segno positivo.