Sud Sudan: sete di potere dietro il conflitto interetnico. Forse già un milione i
profughi
Nel cuore del Papa la sofferenza del popolo sud-sudanese che, conquistata dopo annose
guerre civili l’indipendenza dal Sudan nel luglio 2011, è afflitto ora da un conflitto
interetnico che sta lacerando il Paese. Da qui il messaggio inviato domenica scorsa
da Papa Francesco per chiedere la fine delle violenze, arrivare alla pace e poter
assicurare gli aiuti umanitari. Roberta Gisotti ha intervistato Elisabetta
D’Agostino, appena rientrata da Juba in Italia, responsabile in Sud Sudan dell’Ong
“Comitato Collaborazione Medica”, che opera a supporto delle sanità pubbliche nei
Paesi africani.
A metà dicembre
lo scoppio del conflitto tra le forze governative del presidente Kiir di etnia Dinka
e quelle di entnia Nuer, fedeli all’ex vice-presidente Machar, estromesso nel luglio
scorso. Il 23 gennaio la firma del cessate il fuoco, ma la tregua dura poco. Forse
già un milione i profughi. Elisabetta D’Agostino, lei segue questo Paese da
circa un anno: che cosa sta accadendo? Una guerra possiamo dire tra poveri, ma anche
di brame di potere, come denuncia il Papa….
R. - Credo di sì. Nel Paese si
è aperto un conflitto che sta opponendo le due maggiori etnie del Paese e che, evidentemente,
non nasce da ragioni interne, o da scontri interni a queste due etnie, ma che in qualche
modo le utilizza, le pilota per supportare gruppi di potere; i due rappresentanti
politici che in questo momento si stanno scontrando, secondo me, sono al vertice di
interessi diversi e godono, ovviamente, del supporto esterno di altre nazioni e di
altri gruppi di potere economico.
D. - Quali sono i bisogni immediati, in
questa situazione, della popolazione?
R. - Dallo scoppio del conflitto, in
tutto il Paese ci siamo ritrovati con un numero altissimo di sfollati sia nella capitale,
sia nelle regioni in cui si combatte ma soprattutto negli Stati confinanti. Queste
persone hanno perso tutto e per quanto ci sia una forte presenza di Agenzie internazionali
e di Ong, i bisogni restano altissimi e mancano le risorse. C’è da tenere presente
che si tratta di un Paese totalmente privo anche di infrastrutture: non esistono strade
asfaltate; stiamo andando poi verso la stagione delle piogge e questo comporta sia
dal punto di vista logistico, sia dal punto di vista sanitario rischi giganteschi,
perché vuol dire che nei prossimi mesi l’accessibilità sarà sempre più complicata
e inoltre vuol dire che con le forti piogge ci sarà l’aumento del rischio di epidemie
importanti. Quindi, ci sono bisogni enormi a cui far fronte e le risorse al momento
non sono adeguate.
D. - Era prevedibile, era nell’aria lo scoppio di questo
conflitto interetnico?
R. - Ci si aspettava che qualcosa succedesse già dal
mese di luglio, quando il presidente Salva Kiir ha sciolto il governo e tolto gli
incarichi innanzitutto al suo vice-presidente Riek Machar, sia ad altri esponenti
politici importanti che venivano dall’etnia nuer. Con il passare del tempo forse si
è abbassata la guardia troppo presto ed alla fine il conflitto è arrivato. Al momento,
quello che preoccupa è che gli accordi non hanno dato risultati concreti e, di fatto,
c’è un cessate il fuoco che fa più pensare ad un tempo e ad uno spazio per recuperare
le forze e riarmarsi che ad un vero e proprio percorso di pace. Questo lascia tutti
quanti noi in una situazione di allerta e di preoccupazione per il futuro.